• Articolo pubblicato il 23 Dicembre 2013

In occasione della giornata mondiale dei diritti umani Caritas Internationalis ha lanciato la Campagna “Una sola famiglia umana – cibo per tutti”, con l’obiettivo di eliminare la piaga della fame entro il 2025, sensibilizzando l’opinione pubblica sul tema dello spreco alimentare e del consumo sostenibile e proponendo ai governi nazionali di adottare un quadro normativo sul diritto al cibo.

La Campagna

“One human family, food for all” – una sola famiglia umana, cibo per tutti – è la campagna lanciata dalla confederazione cattolica Caritas Internationalis, con l’obiettivo di eliminare la fame entro il 2025. Obiettivo che, insieme alla cancellazione della povertà, è il primo dei Millenium Development Goals che “termineranno” nel 2015. La confederazione Caritas intende così continuare a dare il proprio contributo anche dopo il 2015, ritenendo uno scandalo il fatto che quasi un miliardo di persone soffra la fame oggi, in un mondo che avrebbe le risorse per sfamare tutti. Tutte le organizzazioni affiliate a Caritas, site in più di 200 paesi, sono quindi invitate a prenderne parte.

A sostegno della campagna è arrivato anche un videomessaggio del Pontefice, il quale ha invitato «le istituzioni del mondo, la Chiesa e ognuno di noi, come una sola famiglia umana, a dare voce a tutte le persone che soffrono silenziosamente la fame, affinché questa voce diventi un ruggito in grado di scuotere il mondo». Sì, perché alla campagna sono chiamati ad aderire tutti, a partire dai cittadini, che, individualmente, possono adottare abitudini alimentari che promuovano un consumo delle risorse sostenibile e ridurre gli sprechi, prendendo atto degli impatti che le loro scelte hanno sulle vite delle persone vicine e lontane; aderire alle campagne che i centri Caritas organizzeranno a livello locale; collaborare con i progetti di solidarietà, come gli empori solidali, che si occupano del contrasto alla povertà alimentare. “Speriamo che la moltiplicazione di tutte queste azioni nel mondo crei un’onda crescente per sostenere e affermare il diritto al cibo”.

Caritas chiede inoltre ai membri delle sue 164 organizzazioni nazionali di individuare e perseguire obiettivi finalizzati a ridurre la povertà alimentare all’interno del proprio Paese di appartenenza sia tramite campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che facendo pressione sui loro governi, per i quali formulerà una specifica proposta di legge. Caritas ritiene infatti che il migliore modo per arrivare al risultato prefissato sia che i governi istituiscano nelle loro leggi nazionali il “diritto al cibo”. L’istituzione di un diritto definito e ufficialmente riconosciuto obbligherà i governi a ridurre sia la denutrizione cronica che la malnutrizione.

L’azione dell’associazione si espanderà fino al livello internazionale, in particolar modo verso quei paesi in cui il diritto al cibo non solo non è riconosciuto, ma è seriamente calpestato. Infine, parteciperà ad una consultazione sul diritto al cibo presso le Nazioni Unite all’assemblea generale del 2015.

La campagna in Italia

La Caritas italiana inoltre, in collaborazione con Focsiv e altri organismi ecclesiali, sta approfondendo la riflessione su una campagna nazionale che dal prossimo anno costituirà la declinazione italiana dell’iniziativa di Caritas Internationalis. Lo stesso tema del diritto al cibo rappresenta anche l’elemento centrale dell’impegno rispetto all’Expo di Milano nel 2015, un appuntamento per il quale Caritas Internationalis, insieme a Caritas Italiana e Caritas Ambrosiana, sta mobilitando energie e risorse rilevanti.

Caritas e la lotta alla povertà alimentare

Nell’ambito della povertà alimentare Caritas presta attività di assistenza attraverso 3.583 Centri di erogazione di beni primari, che rispondono alle esigenze e ai bisogni primari delle famiglie in difficoltà (cibo, vestiario, igiene personale) e 449 mense socio‐assistenziali, alcune di esse attive dai primi del ‘900. Caritas è infatti un’organizzazione che “tradizionalmente” si occupa del sostegno agli indigenti e, in particolare, della lotta alla povertà alimentare.

Se quindi l’organizzazione ha, per così dire, una familiarità col settore, anch’essa è stata tuttavia attraversata da un drastico aumento delle richieste di aiuto negli ultimi tempi, al punto che essa stessa è chiamata a ripensare le proprie modalità di funzionamento e promuovere nuove iniziative, nelle quali si inserisce ad esempio la campagna qui illustrata.

Complessivamente, nel 2012, gli interventi di erogazione di beni alimentari registrati dai Centri di Ascolto Caritas sono stati pari al 44,7% di tutti gli interventi erogati dalla Caritas. Se consideriamo che nel 2006 erano pari al 24,3%, concludiamo che dal 2006 al 2012 tale forma di intervento è cresciuta del 100,9%. Nel corso del 2013, a causa della crisi, c’è stato un sensibile ulteriore aumento delle richieste, che hanno raggiunto quasi il 60% di tutti gli aiuti erogati. In sostanza, quasi il 60% degli utenti che si rivolgono a Caritas oggi hanno problemi di “fame”, manifestazione della povertà più estrema.

Fonte: secondowelfare.it

  • Articolo pubblicato il 23 Dicembre 2013

La pubblicazione del rapporto annuale Eures disegna un ritratto “al nero” della capitale: crimini e denunce aumentano, con 477 furti al giorno, ovvero un furto ogni tre minuti, 325 mila reati denunciati nel 2012 (+ 3,7 rispetto al 2011). E 5.299 reati violenti – tra omicidi volontari, tentati omicidi e violenze sessuali – denunciati nel 2012 solo a Roma. Anche sotto il profilo del trasporto pubblico – l’altro oggetto dell’analisi dell’istituto – la performance è deludente, e colloca la città in fondo alla graduatoria delle capitali europee. Il 2012 è dunque stato «ancora un anno nero per la sicurezza a Roma e nel Lazio. Reati in aumento del 3,7% (+12,2% in 5 anni). Sono 325 mila i reati denunciati nel 2012 nel Lazio, con una crescita di oltre 10 mila unità rispetto al 2011 (+3,7%) e di oltre 50 mila sul 2009, quando ammontavano a 271,5 mila (+2% a livello nazionale nel 2012). Roma, con 269 mila denunce nel 2012, presenta il quadro più allarmante (+4,4% sul 2011, pari a +11.208 reati in valori assoluti)». La Capitale è «seguita da Rieti (4,9 mila e +4,2%) e Viterbo (11,7 mila reati e +3,8%), mentre una leggera flessione si osserva a Frosinone (13,9 mila denunce pari a -0,9%) e Latina (25,7 mila reati, pari a -1%). I furti rappresentano a Roma e nel Lazio la maggioranza dei reati denunciati (rispettivamente il 60,8% e il 57,7% del totale, a fronte del 53,9% in Italia). A Roma, dove si concentra l’87,2% dei furti regionali (163 mila sui 187 mila totali) si conferma il rischio più alto, con 40,7 furti ogni 1.000 abitanti (erano 35,4 nel 2008), mentre valori inferiori a quelli medi regionali (33,9) e nazionali (25,5) si rilevano a Latina (21,6), Viterbo (17,2), Rieti (12,5) e Frosinone (9,7). I 187.425 furti censiti nel Lazio nel 2012 si traducono in 512 furti al giorno (erano 457 nel 2008), pari a 21,3 ogni ora. Particolarmente significativo, in tale contesto, il dato di Roma, dove i 447 furti denunciati in media ogni giorno nel 2012 (51 in più rispetto ai 396 del 2008), significano 18,6 ogni ora, ovvero un furto ogni 3,2 minuti». «Omicidi volontari, tentati omicidi, violenze sessuali e lesioni dolose registrano nel Lazio nel 2012 una dinamica di crescita (+6,6% rispetto al 2011 e +21,9% rispetto al 2008, a fronte di incrementi più contenuti in Italia, pari a +1,3% e +4,6%). A livello provinciale Rieti (+21,8% nell’ultimo anno) e Viterbo (+15,1%) rilevano l’aumento più elevato, seguite da Roma (+6,8%), Frosinone (+3,6%) e Latina (+1,9%), che si conferma la provincia più a rischio, con 17,5 reati violenti ogni 100 mila abitanti, seguita da Viterbo (14,1), Roma (13,2), Frosinone (13) e Rieti (10,4), unica provincia a registrare un valore inferiore a quello medio nazionale (12,8). È in famiglia che si registra «il maggior numero di omicidi negli ultimi 5 anni (con 70 vittime su 220, pari al 31,8% del totale), seguito dalla criminalità comune (30,5% e 67 vittime), che sale invece al primo posto a Roma (con il 30,1% delle vittime, seguito da quello familiare con il 28,3%). Seguono gli omicidi tra conoscenti (30 vittime, pari al 13,6%), quelli maturati all’interno di rapporti economici o lavorativi (14, pari al 6,4%), quelli di vicinato (12 e 5,5%) e quelli ascrivibili alla criminalità organizzata (7 vittime, pari al 3,2%). Aumentano  nel Lazio anche i casi di femminicidio: «già 15 vittime contro i 9 dell’intero 2012». «Tra il 2003 e il 2012 nel Lazio sono state 126 le donne uccise, con una media annua di 13 vittime, uccise nel 74,6% dei casi nell’ambito familiare o affettivo – si spiega -; il 12,7% dei femminicidi (16 vittime) è da attribuire alla criminalità comune, mentre l’8,7% (11 vittime) si è consumato all’interno di una relazione di prossimità diversa da quella familiare (amicale, di vicinato, economica o lavorativa). È la provincia di Roma a contare il 70,6% dei femminicidi laziali censiti tra il 2003 e il 2012 (con 89 vittime). «Il dato più allarmante sembra tuttavia riguardare l’aumento dei reati sessuali che coinvolgono i minori, saliti a 196 nel Lazio nel 2012, con una crescita del +42% rispetto alle 138 denunce del 2011. Nella prevalenza dei casi (138) si è trattato di violenza sessuale vera e propria (56 casi, +51,4% rispetto al 2011) o di atti sessuali con un minorenne (56 denunce, +21,7%), in 53 casi di reati correlati alla pornografia minorile (26 casi, +52,9%) o alla detenzione di materiale pedopornografico (27 casi, +237,5%), in 19 casi si è trattato di episodi di prostituzione minorile (rispetto ai 16 del 2011) e in 12 casi di corruzione di minore (+50% rispetto agli 8 casi dell’anno precedente)».

Ed eccoci al capitolo trasporti: biglietto meno costoso ma offerta carente, tra le più basse in Europa. Il rapporto Eures registra  nella capitale la più bassa dotazione di linee metropolitane (2 linee, 51 stazioni e 41,5 Km percorsi), a fronte del valore più elevato a Londra (13 linee che percorrono 460 Km e fermano in 382 stazioni), seguita da Madrid (279 Km e 232 stazioni) e Parigi (217 Km e 300 stazioni). Anche per il trasporto su gomma, con 3.500 Km percorsi dai 2.450 bus circolanti, Roma si colloca in fondo alla graduatoria delle Capitali Europee, con scarti significativi nel confronto con l’offerta di Berlino (30 mila Km), Madrid (26 mila Km) e Parigi (25 mila Km). Inferiore soltanto il dato di Bruxelles (684 Km percorsi), la cui dimensione è tuttavia 10 volte inferiore a quella Capitolina. A fronte di un’offerta pubblica ancora distante dagli standard europei, la Capitale si distingue per un costo del servizio all’utenza decisamente più contenuto: il prezzo del biglietto orario (1,50 euro, con una validità di 100 minuti), risulta analogo a quello di Madrid (1,50 euro per un massimo di 5 fermate di metro o per una singola tratta su gomma), ma molto inferiore a quello di Amsterdam (2,60), Londra (2,50), Berlino (2,40) e Vienna (2 euro). Analogamente il costo dell’abbonamento mensile, pari a soli 35 euro, risulta il più basso tra le Capitali europee considerate, a fronte dei 134 euro di Londra, dei 77 euro di Berlino, dei 56 di Parigi, dei 51 di Bruxelles, dei 48 (fino a 54) di Madrid, dei 45 di Vienna e dei 43 di Amsterdam (dove talvolta risulta vincolato a specifici «settori» delle città).

Nel confronto europeo i cittadini di Roma presentano anche la più alta propensione a recarsi al luogo di lavoro con un mezzo di trasporto privato (56,7%, contro il 23,2% di Parigi, il 27% di Praga, il 37,6% di Berlino e il 41% di Madrid), con evidenti conseguenze sulla qualità della mobilità urbana. Contestualmente è il comune di Roma a registrare il più elevato tasso di motorizzazione privata, con 1,9 milioni di autoveicoli circolanti nel 2011, pari a 699,2 ogni 1.000 abitanti, a fronte di valori notevolmente inferiori a Parigi (250), Amsterdam (252,7), Berlino (285,6) e Londra.

Fonte: dirittisociali.org

  • Articolo pubblicato il 23 Dicembre 2013

Antigone, tutti i numeri del carcere: 173 detenuti ogni 100 posti disponibili. In calo i decessi, pochi detenuti svolgono attività lavorativa. Il decimo rapporto dell’associazione sulle condizioni di detenzione. Detenuti a quota 64 mila contro i 37 mila della capienza effettiva. Quasi un terzo è straniero, e uno su cinque è tossicodipendente; ben 24 mila in custodia cautelare

Negli istituti di pena italiani ci sono oltre 16 mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Al 30 novembre 2013 erano infatti presenti 64.047 ristretti a fronte di 47.649 posti. Ma nonostante il dato ufficiale sia già significativo, in realtà il numero effettivo di posti disponibili non supererebbe le 37 mila unità, come confermato recentemente anche dal ministro della Giustizia Cancellieri.
A due giorni dall’approvazione del decreto del governo per decongestionare le carceri, l’Osservatorio di Antigone ha presentato a Roma il suo decimo rapporto sulle condizioni di detenzione “L’Europa ci guarda” (ed. Gruppo Abele, 2013), contenente tutte le cifre impietose di un “sistema al fallimento” che la Corte di Strasburgo ha da tempo messo nel mirino. Un rapporto che, come da tradizione, offre uno spaccato delle condizioni delle carceri italiane e delle persone che vi sono ristrette.
Il tasso di sovraffollamento arriva al 134 per cento, cioè ogni cento posti ci sono più di 134 persone. È uno dei valori più alti in Europa, ma se si fa riferimento alla capienza effettiva stimata da Antigone, la percentuale raggiunge il 173 per cento. Le regioni più sovraffollate sono la Liguria (169,9 per cento), la Puglia (158,1 per cento), l’Emilia Romagna (155,9 per cento) e il Veneto (153,4 per cento).
I detenuti immigrati sono 22.434, il 35 per cento del totale, con percentuali più alte in Trentino Alto Adige (71,9 per cento), Liguria (58,4 per cento), Veneto (58,3 per cento) e Friuli Venezia Giulia (57,6 per cento). In queste aree gli italiani sono una netta minoranza tra i detenuti. I paesi di provenienza più diffusi sono Marocco (18,5 per cento), Romania (16,1 per cento), Albania (12,7 per cento) e Tunisia (12 per cento). Tra le donne, la maggior parte viene da Romania (26,9 per cento) e Nigeria (8,8 per cento). Le donne detenute sono 2.789, il 4,4 per cento del totale dei detenuti. I numeri più alti si registrano in Lazio (507, il 7,2 per cento ) e in Lombardia (549, 6,2 per cento).
La gran parte dei detenuti italiani viene dalla Campania (18,4 per cento), dalla Sicilia (12,2 per cento), dalla Puglia (6,7 per cento) e dalla Calabria (6,2 per cento). Il 4,8 per cento viene dalla Lombardia, l’1,9 per cento dal Piemonte e l’1,3 per cento dal Veneto. Al 30 giugno 2013, nei 16 asili nido penitenziari erano detenute 51 madri con 52 bambini, di cui 20 solo a Roma. Ma i bambini coinvolti dal fenomeno delle detenzione sono molti di più: i 25.119 genitori detenuti a giugno 2013 hanno complessivamente oltre 57 mila figli.
Le persone in custodia cautelare sono 23.923, cioè in attesa di giudizio, pari al 37,4 per cento del totale dei detenuti, un numero che non trova confronti in Europa. La situazione peggiora ulteriormente in alcune regioni, per la precisione Campania (49,6 per cento), Calabria (49,5 per cento), Liguria (43,1 per cento), Lazio (41,7 per cento) e Puglia (41,5 per cento). Il dato risulta ancora più elevato tra gli stranieri: il 43,2 per cento è in custodia cautelare e in regioni come Campania, Puglia, Lazio e Liguria, si supera il 50 per cento. Tra i detenuti con sentenza definitiva, 2.459 scontano una condanna a meno di un anno, per fatti di scarsissima rilevanza penale (6,4 per cento). Altre 10.399 persone sono in carcere per una condanna inferiore ai 3 anni, dunque verosimilmente nei termini per misure alternative alla detenzione. Tra gli stranieri le percentuali aumentano: rispettivamente il 9,3 per cento e il 37,9 per cento. “Gli stranieri commettono evidentemente reati meno gravi – si legge nel rapporto -, ma vanno in carcere più facilmente”. Situazione analoga tra le donne: una su quattro ha una condanna definitiva inferiore all’anno e tre su quattro per condanne inferiori ai 3 anni. Solo un detenuto su dieci ha condanne superiori ai 10 anni, inclusi i 1.581 ergastolani. Dato che scende al 3,9 per cento tra gli stranieri e al 6 per cento tra le donne.
“Il sovraffollamento dipende dallo scarso uso delle misure alternative. Le direzioni e la magistratura di sorveglianza non osano”, è l’accusa dell’Osservatorio. Sono 832 i detenuti in semilibertà di cui solo 81 stranieri; 12.741 sono usciti con la legge sulla detenzione domiciliare del 2010 (3.679 stranieri) e 10.992 sono in affidamento in prova al servizio sociale (meno di un terzo per motivi legati allo stato di tossicodipendenza). Altri 10.189 sono in detenzione domiciliare (di cui 2.533 per la legge n. 199), tremila sono in libertà vigilata, 558 svolgono lavoro all’esterno, a 4.159 è concessa la partecipazione a lavori di pubblica utilità per avere violato il codice strada.
Al 31 dicembre 2012, ultimo dato disponibile, la percentuale di tossicodipendenti nelle carceri italiane era del 23,8 per cento. Le punte più alte si registrano in Sardegna (34,1 per cento), Puglia (32,3 per cento), Lombardia (30,4 per cento) e Liguria (30,1 per cento). Ancora più allarmante poi il numero di persone detenute per violazione della legge sulle droghe. In particolare, i detenuti per violazione del solo articolo 73 del Testo Unico sugli stupefacenti erano il 38,4 per cento del totale nazionale. Ma la percentuale è ancora più alta in regioni come la Sardegna (50,8 per cento), la Liguria (46,4 per cento), l’Umbria (46,2 per cento) o il Veneto (43,6 per cento).
Dei 66.028 detenuti presenti al 30 giugno 2013, 28.341 erano alla prima carcerazione. Il restante 57 per cento tornava in carcere dopo esserci già stato. “Il carcere è una macchina costosa che alimenta se stessa, crea la propria domanda, indifferente al proprio fallimento” incalza il rapporto.

I decessi

Il numero di chi si toglie la vita dietro le sbarre è in calo dal 2009. Il primato delle morti spetta a Roma Rebibbia con 11. I decessi in totale sono stati 99, ma altre fonti parlano di 146. Dal 2009 sono in costante calo i suicidi nelle carceri italiane. E la tendenza sembra destinata a confermarsi anche per il 2013: al momento il numero si ferma a 47 (24 italiani e 23 stranieri), contro i 60 di fine 2012. Nel 2011 e nel 2010 sono stati 66, 72 nel 2009.
Secondo il rapporto sulle condizioni detentive di Antigone nel corso del 2013 i detenuti morti in carcere sono stati complessivamente 99. L’ultimo lo scorso 13 dicembre a Bergamo per infarto. Tra le cause, oltre ai suicidi si contano 24 decessi per malattia e 28 per cause ancora da accertare. Secondo altre stime, però, il numero totale di decessi sarebbe molto superiore e arriverebbe a quota 146 (dossier Morire di carcere, Ristretti orizzonti, aggiornamento al 18 dicembre).
Il primato delle morti calcolate da Antigone spetta a Roma Rebibbia con 11 decessi (di cui 2 per suicidio, 3 per malattia e le altre ancora da accertare), seguita da Napoli, dove a Poggioreale sono morti fino ad oggi 6 detenuti ai quali vanno ad aggiungersi gli altri 3 decessi di Secondigliano. Quattro i detenuti morti a Teramo, 3 a Velletri e sempre 3 nell’Opg di Reggio Emilia.
Il detenuto morto più giovane aveva 21 anni, era marocchino e si è impiccato il giorno dopo Ferragosto nella casa circondariale di Padova. Il detenuto più anziano aveva 82 anni, è morto a seguito di un malore e stava scontando la sua pena nella casa di reclusione di Rebibbia. Aveva gravi patologie ed era stato recentemente colpito da un ictus. Agli inizi di ottobre il Tribunale di Sorveglianza aveva rigettato la sua richiesta di differimento della pena per motivi di salute.
Nella Casa circondariale di Ferrara, a 81 anni, è morto alla fine di ottobre Egidio Corso. Era in sciopero della fame da 10 giorni per protesta contro la mancata concessione di una misura alternativa. A 27 anni, il giorno successivo al suo arresto, si è tolto la vita nel carcere di Crotone, Pasquale Maccarone, impiccandosi con il lenzuolo al letto a castello della sua cella dove era rinchiuso da solo.

Il regime speciale

Appello per togliere Carmelo Musumeci dall’Alta sicurezza: “Per lui un riconoscimento meritato, per la società libera un’indicazione chiara che la risocializzazione è sempre possibile”. Critiche anche sul 41 bis. Nelle carceri italiane, nel luglio 2013, erano 8.914 i detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza, secondo i dati del decimo rapporto dell’Osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione. “Nei loro confronti – si legge nel rapporto – sono fortemente ridotte le opportunità di trattamento. Non possono partecipare nella maggior parte dei casi ad attività sociali e culturali nei reparti. Vivono in reparti separati e sono divisi dai detenuti ordinari”. Antigone solleva dubbi sulla legittimità di un regime che “non è disciplinato né dall’ordinamento penitenziario né dal regolamento penitenziario, ma dalle circolari del Dap”. E incalza: “Per ottenere una declassificazione verso regimi ordinari è necessario che questi detenuti dimostrino di non avere più collegamenti con l’organizzazione criminale. Una vera e propria probatio diabolica per chi si trova in prigione da tanti anni”.
Critica la posizione dell’Osservatorio anche sul 41 bis, che riguarda 710 detenuti: “Un regime che non distingue tra presunti innocenti e condannati, che sono una minoranza”. 64, invece, i detenuti sottoposti a sorveglianza particolare.
Dalle pagine del suo rapporto Antigone rilancia un appello per togliere Carmelo Musumeci, “detenuto modello”, dal regime speciale di alta sicurezza: “Riteniamo che la sua sia una storia limpida di emancipazione da scelte devianti – si legge nel documento -. Durante la sua detenzione è riuscito a laurearsi in giurisprudenza, ha scritto libri che hanno ottenuto riconoscimenti importanti, è diventato punto di riferimento culturale per tantissimi detenuti ma anche per tante persone e associazioni che operano all’esterno del carcere”. Per questo l’associazione chiede all’amministrazione penitenziaria di declassificarlo, “in modo da consentirgli il prosieguo della detenzione in un regime ordinario dove possa avere più spazio per la sua passione di studio e di cultura. Sarebbe per lui un riconoscimento meritato, per gli altri detenuti un segnale importante, per la società libera un’indicazione chiara che la risocializzazione è sempre possibile, per tutti, nessuno escluso”.

Il lavoro

Solo 13 mila i carcerati che svolgono attività lavorativa, sarebbero ancora meno se non impiegassero più detenuti sulla stessa mansione. “Aziende pressoché assenti”. Istruzione: 953 i corsi scolastici attivati. Lo scorso 16 dicembre si è svolto proprio su questo tema un convegno nel carcere di Bollate con Alleanza delle cooperative sociali e il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri.
Poco più di tredicimila persone in carcere sono impegnate in attività lavorative, di cui la maggioranza (11.579) alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. “Una percentuale decisamente bassa rispetto al passato, ma che sarebbe ancora più bassa se negli istituti non si ricorresse al frazionamento sempre maggiore dei posti di lavoro” scrive l’Osservatorio di Antigone nel suo decimo rapporto sulle condizioni di detenzione. “Dove un tempo lavorava un detenuto – si aggiunge -, ricevendo un compenso dignitoso, oggi possibilmente lavorano in due, e spesso per periodi tempo molto brevi, in modo da dar spazio a rotazione a più detenuti possibile”. I detenuti che lavorano per datori esterni sono 882 lavorano in carcere e 1.266 fuori in semilibertà o in articolo 21, ma sono distribuiti in modo molto diseguale nel paese: il 39 per cento è in Lombardia, il 24,8 per cento in Veneto e il 10 per cento nel Lazio. “Nel resto del paese le aziende in carcere sono pressoché assenti”.
Novità sul fronte del lavoro arrivano dalla legge Smuraglia, nata per favorire con incentivi fiscali e contributivi il ruolo dell’imprenditoria in carcere, che per Antigone “ha fallito il suo scopo. Per questo, nel corso del 2013, sono intervenute modifiche importanti”. In particolare, è aumentata la disponibilità di risorse, passando dai 2,5 milioni di euro degli ultimi anni ai 20,6 previsti per il 2013. Dal 2014 le risorse disponibili saranno di circa 10 milioni l’anno. Il periodo di applicazione è esteso, fino a 18 mesi (o in alcuni casi 24) dopo la fine della pena. Si prevede inoltre una riduzione del cento per cento delle aliquote contributive e l’aumento fino a 700 euro del credito di imposta.
Sul fronte dell’istruzione, sono stati attivati 953 corsi scolastici, di cui solo 205 di secondo grado. Altri 316 sono gli iscritti all’Università, di cui 52 stranieri. Scienze politiche, Lettere e Giurisprudenza le facoltà più gettonate. I laureati sono 18. Nella prima metà del 2013 sono stati attivati 251 corsi di formazione professionale che hanno coinvolto 2.989 detenuti. Nello stesso periodo se ne sono conclusi 173, portati a compimento con successo da 1.711 detenuti.

Fonte: nelpaese.it

  • Articolo pubblicato il 23 Dicembre 2013
Dalla Gran Bretagna a Vienna a Imola, nei primi giorni di dicembre sono sorti diversi empori della solidarietà dove disoccupati e poveri possono fare la spesa gratis o con sconti fortissimi. Idee semplici che partono dal basso e possono fare la differenza. Ecco tre storie
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Si moltiplicano in Italia e all’estero le iniziative di “empori solidali” per venire incontro ai bisogni delle famiglie povere. Il primo supermercato di questo tipo ha aperto i battenti da pochi giorni in Gran Bretagna, a Goldthorpe, nello Yorkshire, una zona economicamente depressa e dove è molto alta la concentrazione di abitanti che vivono grazie ai sussidi di povertà. Qui vengono venduti, con uno sconto non inferiore al 70% del prezzo normale, prodotti buoni e freschi ma con la confezione danneggiata, l’etichetta sbagliata o con altri difetti non inerenti il contenuto; il supermercato riceve la merce dalle grandi catene distributive, che altrimenti sarebbero costrette a smaltirla nei rifiuti, ed è aperto solo ai consumatori che possono dimostrare, documenti alla mano, di ricevere aiuti statali per indigenza.
Anche a Vienna, città tradizionalmente ricca ma che ha conosciuto negli ultimi mesi un drammatico aumento della povertà, è stato aperto per iniziativa della Caritas austriaca un emporio solidale che vende prodotti di prima necessità a prezzi bassissimi: “La richiesta è enorme”, ha raccontato il vescovo della città, cardinale Christoph Schoenborn, nel corso dell’incontro con i laici della città di Milano dello scorso 10 dicembre. “Anche nella nostra ricca Austria ci siamo accorti che dovevamo fare qualcosa per le persone in difficoltà, che continuano ad aumentare”.
In Italia sono diverse le iniziative di questo tipo, molte delle quali in Emilia Romagna; dopo l’esperienza del market Portobello di Modena, dove i disoccupati fanno la spesa gratis in cambio di qualche ora di volontariato, nella vicina Imola nasce ora l’associazione “No Sprechi“, costituita da sette associazioni (Santa Maria della Carità (Caritas), Santa Caterina, Auser, Croce Rossa, Trama di Terre, Anteas e San Vincenzo), che a febbraio 2014 aprirà un Emporio della Solidarietà in via Lambertini: un supermercato solidale dove le famiglie e i singoli in stato di disagio sociale possono fare la spesa gratuitamente con una carta a punti a scalare, rilasciata dalle varie associazioni in base alla domanda da loro presentata. Secondo le associazioni, le famiglie dovrebbero essere circa 500 nei primi due-tre mesi.
I viveri saranno forniti sia dal Banco Alimentare che da una trentina di aziende produttrici e distributrici locali che si sono rese disponibili a donare le loro eccedenze. I volontari   già  oggi  impegnati nel progetto sono più di  35. Il progetto sarà sostenuto anche dal Comune con le risorse destinate al volontariato e dall’Asp attraverso le risorse del fondo sociale distrettuale regionale.
Fonte: vita.it
  • Articolo pubblicato il 19 Dicembre 2013

Nell’anno scolastico 2012-2013, sono circa 84 mila gli alunni con disabilità nella scuola primaria (pari al 3,0% del totale degli alunni) mentre in quella secondaria di primo grado se ne contano poco più di 65 mila (il 3,7% del totale). Nelle scuole primarie il 21,4% degli alunni con disabilità non è autonomo in almeno una delle attività indagate (spostarsi, mangiare o andare in bagno) e l’8,0% non è autonomo in tutte e tre le attività. Nelle scuole superiori di primo grado le percentuali sono rispettivamente del 14.7% e del 5,5%. Il ritardo mentale, i disturbi del linguaggio, dell’apprendimento, e dell’attenzione rappresentano i problemi più frequenti negli alunni con disabilità in entrambi gli ordini scolastici considerati. Gli insegnanti di sostegno rilevati dal Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (Miur) sono più di 67 mila: 2 mila in più rispetto allo scorso anno. Nel Mezzogiorno si registra il maggior numero di ore medie di sostegno settimanali assegnate. Gli insegnanti di sostegno, in entrambi gli ordini scolastici, svolgono prevalentemente attività di tipo didattico (per l’84% degli alunni con disabilità della scuola primaria e per l’82,4% di quelli della scuola secondaria di primo grado). La quota è rispettivamente dell’ 8,6% e del 6,8% se l’insegnante svolge attività prevalentemente di tipo assistenziale. Circa l’8% delle famiglie ha presentato un ricorso negli anni per ottenere l’aumento delle ore di sostegno. Ha cambiato insegnante di sostegno nel corso dell’anno scolastico il 14,5% degli alunni con disabilità della scuola primaria e il 12,5% della scuola secondaria di primo grado. Il 44,2% degli alunni della scuola primaria ha invece cambiato l’insegnante di sostegno rispetto all’anno scolastico precedente, lo stesso è accaduto al 37,9% degli alunni della scuola secondaria di primo grado. Nel Centro e nel Nord si registrano in media circa cinque ore settimanali di assistente educativo culturale o assistente ad personam per la scuola primaria e quattro ore per la secondaria di primo grado. Nel Mezzogiorno, dove invece sono più numerosi gli alunni con disabilità non autonomi, a questa attività vengono dedicate tre ore nella scuola primaria e due nella secondaria di primo grado. La partecipazione alle attività extrascolastiche organizzate dalla scuola sembra essere molto difficile per gli alunni con disabilità., Quasi la metà di loro non partecipa in entrambi gli ordini scolastici. Percentuali più basse si riscontrano, invece, nella partecipazione ai campi scuola, ai quali prendono parte il 16,1% degli alunni con disabilità della scuola primaria e il 17,2% di quelli della scuola secondaria di primo grado.

Fonte: istat.it

  • Articolo pubblicato il 19 Dicembre 2013

Diritti e doveri delle persone che vivono in un condominio, uso degli spazi comuni nei contesti condominiali e caratteristiche di una comunicazione efficace tra persone provenienti da diversi contesti socio-culturali. Sono questi i principali temi dei corsi di formazione rivolti a cittadini di paesi terzi (non UE) e realizzati nell’ambito del progetto AMAR – Agenzia di Mediazione Abitativa di Roma in partenza a febbraio 2014.

Il progetto AMAR, co-finanziato dalla Commissione Europea e dal Ministero dell’Interno nell’ambito del Fondo Europeo per l’Integrazione di cittadini di Paesi terzi – programma annuale 2012, è gestito da Programma integra in partnership con il Dipartimento Politiche Sociali, Sussidiarietà e Salute di Roma Capitale, e le associazioni Oasi e Spirit Romanesc.

I due corsi di formazione dal titolo ‘Le regole di convivenza nei contesti condominiali’ sono rivolti a migranti cittadini di paesi terzi che vogliono conoscere più da vicino diritti e doveri di una persona che abita in condominio, le regole di uso degli spazi condominiali e approfondire tecniche di una comunicazione interculturale efficace.

I due corsi, gratuiti e con lo stesso programma, hanno una durata di 6 ore ciascuno con incontri di 2 ore per modulo.

Programma

Modulo 1 – Iniziamo insieme nel gruppo e nel condominio
Cinzia Sabbatini (Associazione Spirit Romanesc)
– Presentazione degli incontri e degli obiettivi
– Introduzione ad una efficace comunicazione e relazione tra persone diverse per vari aspetti

Modulo 2 – Il corretto uso degli spazi comuni e il regolamento condominiale
Andrea Finizio (MediANACI)
– Che cos’è un regolamento di condominio
– Le funzioni dell’Amministratore e dell’Assemblea
– Le principali norme condominiali
– L’Amministratore e i Consiglieri come punto di riferimento
– Suggerimenti utili per una migliore vita in comune e usare al meglio gli spazi condominiali

Modulo 3 – La comunicazione interculturale
Concetta Ricciardi (Associazione Spirit Romanesc)
– Introduzione ai principi della comunicazione umana
– Strumenti per l’osservazione culturale: quali sono i modelli culturali e comunicativi da osservare nell’incontro con l’altro.

Il 1° corso si svolgerà a Roma, in Via Assisi 41, nelle giornate di:
6 febbraio ore 16,00 – 18,00
13 febbraio ore 18,00 – 20,00
18 febbraio ore 16,00 – 18,00
Iscrizioni entro: 31 gennaio 2014

Il 2° corso si svolgerà a Roma, in Via Assisi 41, nelle giornate di:
25 febbraio ore 17,00 – 19,00
6 marzo ore 18,00 – 20,00
13 marzo ore 17,00 – 19,00
Iscrizioni entro: 17 febbraio 2014

Per partecipare è necessario compilare e sottoscrivere la SCHEDA DI ISCRIZIONE.

Per informazioni:
3381649520
e-mail: [email protected]

  • Articolo pubblicato il 16 Dicembre 2013

ITAS MUTUA con il “Sostegno alla Solidarietà” mette a disposizione di Fondazione SolidaRete per l’anno 2013 la somma di € 30.000,00, per l’erogazione di 3 contributi che SolidaRete conferirà a sostegno di progetti di soggetti aderenti alla rete della Fondazione che nell’ultimo biennio si sono attivati in attività connesse alla mission della Fondazione.
I contributi a sostegno dei progetti, di 10.000,00 € ciascuno, hanno un alto valore simbolico e saranno assegnati rispettivamente ai progetti individuati nelle 3 seguenti aree tematiche (A, B, C) di seguito riportate.

Area tematica A) Integrazione sociale e sviluppo imprenditoriale
Progetti -già realizzati o in fase di realizzazione- di supporto al processo di integrazione sociale attraverso l’accompagnamento allo sviluppo di cooperativa/ impresa sociale.

Area tematica B) Promozione del commercio equo e solidale
Azioni -già realizzate o in fase di realizzazione- sul territorio locale che dimostrano la capacità di saper fare stabilmente rete locale dando vita, congiuntamente con altre botteghe del mondo aderenti al consorzio CTM Altromercato, ad iniziative non occasionali di promozione commerciale o culturale del commercio equo e solidale.

Area tematica C) Cooperazione Internazionale
Progetti -già realizzati o in fase di realizzazione- di cooperazione mirati allo sviluppo locale che sostengono iniziative di lotta alla povertà e risposta a bisogni sociali attraverso la modalità di creazione di forme di reddito e lavoro sia con approccio individuale che cooperativo promossi dalle ONG federate della Focsiv – Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario.

Le schede di partecipazione all’iniziativa dovranno essere inoltrate entro il 31 dicembre 2013.

Fonte: synagosrl.com

  • Articolo pubblicato il 13 Dicembre 2013

FIGLI DEI “CAMPI” – Libro bianco sulla condizione dell’infanzia rom in emergenza abitativa in Italia

Associazione 21 luglio

Con il rapporto “Figli dei campi”, l’Associazione 21 luglio ha inteso analizzare le condizioni di vita dei minori rom e delle loro famiglie che vivono negli insediamenti formali ed informali e nei centri di accoglienza in Italia.

La ricerca si concentra pertanto sulle condizioni abitative dei minori rom nei “campi” formali, informali e nei centri di accoglienza e sulle modalità di attuazione degli sgomberi, con riferimento al diritto a un alloggio adeguato; sulla frequenza e il successo scolastico, con riferimento particolare al diritto all’istruzione; sulle possibilità di gioco nei “campi” e nei centri di accoglienza, in riferimento al diritto al gioco; sulla mortalità e le condizioni di salute dei minori rom che abitano nei “campi” e nei centri di accoglienza, in riferimento al diritto alla salute. In alcuni capitoli si è preferito operare una comparazione tra le diverse città, mentre in altri si è optato per un’analisi delle problematiche comuni alle differenti aree geografiche analizzate.

“Figli dei campi” intende mostrare il punto di vista dei minori rom, descrivendo le loro condizioni di vita e analizzando se e come le politiche adottate dalle autorità italiane abbiano compromesso il godimento dei loro diritti fondamentali e il principio di non discriminazione.

novembre 2013

  • Articolo pubblicato il 11 Dicembre 2013

Le «Considerazioni generali» del 47° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2013. Il crollo non c’è stato, ma troppe persone scendono nella scala sociale. Nuovi spazi imprenditoriali e occupazionali in due ambiti: revisione del welfare e economia digitale. Il sistema ha bisogno e voglia di tornare a respirare, oltre le istituzioni e la politica

Roma, 6 dicembre 2013 – Una sospensione da «reinfetazione». Oggi la società ha bisogno e voglia di tornare a respirare per reagire a due fattori che hanno caratterizzato l’anno. Il primo fattore è lo stato di sospensione da «reinfetazione» dei soggetti politici, delle associazioni di rappresentanza, delle forze sociali nelle responsabilità del Presidente della Repubblica. Ma la reinfetazione, in nome del valore della stabilità, riduce la liberazione delle energie vitali e implica il sottrarsi alle proprie responsabilità dei soggetti che, a diverso titolo e con differenti funzioni, dovrebbero concorrere allo sviluppo, che è sempre un processo di molti. Il secondo fattore è la scelta implicita e ambigua di «drammatizzare la crisi per gestire la crisi» da parte della classe dirigente, che tende a ricercare la sua legittimazione nell’impegno a dare stabilità al sistema partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre. Nel progressivo vuoto di classe politica e di leadership collettiva, i soggetti della vita quotidiana rischiano di restare in una condizione di incertezza senza prospettive di élite.

Il crollo non c’è. Il crollo atteso da molti non c’è stato. Negli anni della crisi abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari).

Una società sciapa e infelice. Quale realtà sociale abbiamo di fronte dopo la sopravvivenza? Oggi siamo una società più «sciapa»: senza fermento, circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa. E siamo «malcontenti», quasi infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali. Si è rotto il «grande lago della cetomedizzazione», storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti.

Dov’è oggi il «sale alchemico»? Quel fervore che ha fatto da «sale alchemico» ai tanti mondi vitali che hanno operato come motori dello sviluppo degli ultimi decenni si intravede, tuttavia, nella lenta emersione di processi e soggetti di sviluppo che consentirebbero di andare oltre la sopravvivenza. Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione.

Nuove energie e responsabilità in due ambiti: revisione del welfare e economia digitale. Ci sono poi due grandi ambiti che consentirebbero l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni occupazionali. Il primo è il processo di radicale revisione del welfare: crescono il welfare privato (il ricorso alla spesa «di tasca propria» e/o alla copertura assicurativa), il welfare comunitario (attraverso la spesa degli enti locali, il volontariato, la socializzazione delle singole realtà del territorio), il welfare aziendale, il welfare associativo (con il ritorno a logiche mutualistiche e la responsabilizzazione delle associazioni di categoria). Il secondo ambito è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati agli applicativi basati sulla localizzazione geografica, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani «artigiani digitali».

In cerca di connettività. Il filo rosso che può fare da nuovo motore dello sviluppo è la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi. È vero che restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni. Eppure la crisi antropologica prodotta da queste propensioni sembra aver raggiunto il suo apice ed è destinata a un progressivo superamento. Oggi le istituzioni non possono fare connettività, perché sono autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo. E la connettività non può lievitare nemmeno nella dimensione politica, che è più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide (dalla selva dei decreti legge all’uso continuato dei voti di fiducia). Se istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi. Sarebbe cosa buona e giusta fargli «tirar fuori il fiato».

Fonte: censis.it

  • Articolo pubblicato il 11 Dicembre 2013

Nonostante i proclami delle istituzioni, che hanno sottolineato la necessità improcrastinabile di passare da una logica emergenziale ad una logica d’inclusione, l’Italia continua ad attuare nei confronti di rom e sinti una politica discriminatoria che ghettizza tali comunità nei cosiddetti “campi nomadi”. Questa politica ha ripercussioni devastanti soprattutto sui minori i cui diritti umani, dall’alloggio adeguato all’istruzione, dalla salute al gioco sino al diritto alla famiglia, risultano violati in maniera sistematica.
In concomitanza con la Giornata mondiale dei Diritti umani indetta dalle Nazioni Unite, l’Associazione 21 luglio ha presentato davanti alla Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato “Figli dei campi”, libro bianco sulla condizione dell’infanzia rom in emergenza abitativa in Italia.
Il rapporto, finanziato grazie al contributo dell’otto per mille della Chiesa valdese, analizza le condizioni di vita dei minori rom e delle loro famiglie negli insediamenti formali, informali e nei centri di accoglienza riservati a soli rom in 9 città italiane: Roma, Milano, Napoli, Torino, Pisa, Lecce, Cosenza, Palermo, Latina e San Nicolò d’Arcidano, in provincia di Oristano. In questi centri risiedono 18 mila rom e sinti dei circa 40 mila totali che vivono nei “campi” nel nostro Paese.
«I campi sono spazi isolati e sovraffollati che non offrono nessuna seria prospettiva di inclusione sociale, dove le persone, inclusi i minori, vivono in condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza allarmanti, in una situazione di segregazione etnica di fatto», si legge nel rapporto dell’Associazione 21 luglio.
In Italia la politica dei “campi nomadi” ha preso avvio a partire dagli anni Ottanta con l’attuazione di apposite Leggi regionali basate sul presupposto che rom e sinti siano “nomadi” e non stanziali.
Da allora, nonostante questo presupposto sia da considerarsi ormai infondato e superato, come peraltro sottolineato nella Strategia Nazionale di Inclusione di Rom, Sinti e Caminanti adottata dal governo italiano nel 2012,  le amministrazioni locali insistono nell’individuare nel “campo nomadi” il solo luogo possibile dove relegare le comunità rom e sinte, alimentando stereotipi e pregiudizi negativi nei loro confronti.
La violazione del diritto ad un alloggio adeguato, perpetrata anche attraverso ripetuti sgomberi forzati che non rispettano gli standard internazionali, ha un effetto devastante anche sugli altri diritti dei minori.
Negli  insediamenti formali, informali e nei centri di accoglienza per soli rom i bambini rom e sinti cadono vittime delle cosiddette patologie da ghetto (malattie infettive, ansie, fobie e disturbi del sonno) con una frequenza ben maggiore di quanto non avvenga nella società maggioritaria. In questo modo il loro diritto alla salute risulta fortemente compromesso.
Vivere nei “campi” rappresenta un ostacolo importante anche per il pieno godimento del diritto all’istruzione. I minori sono infatti penalizzati dall’ubicazione degli insediamenti formali al di fuori del tessuto urbano, lontano dagli istituti scolastici, e dalla mancanza di spazi adeguati per lo studio all’interno delle abitazioni.
Le politiche predisposte dalle istituzioni per le comunità rom e sinte in emergenza abitativa non contemplano poi né il diritto al gioco dei bambini né tantomeno le attività ricreative, artistiche e culturali, elementi fondamentali per un sano sviluppo intellettivo, affettivo, cognitivo e relazionale dei minori.
Infine, sottolinea il rapporto, i minori rom e sinti che vivono nei “campi” hanno ben 40 probabilità in più di essere dichiarati adottabili rispetto a coetanei non rom, un dato che rivela la violazione del loro diritto alla famiglia.
«La vera emergenza non è quella inventata dal Governo italiano nel 2008, peraltro dichiarata illegittima dalla Cassazione lo scorso aprile, ma l’emergenza rappresentata dalla discriminazione cumulativa che subiscono i minori rom e le loro famiglie», afferma Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio.
«Questa emergenza – continua Stasolla – va affrontata non l’anno prossimo o il prossimo mese, ma oggi, perché ogni giorno che passa è un giorno in più che molti minori rom passano a giocare in mezzo ai rifiuti, in luoghi dove è difficile fare i compiti, dove non si possono invitare amici non rom per la vergogna e dove semplicemente non si può costruire un futuro fatto di diritti».
L’Associazione 21 luglio ha lanciato un appello nazionale con raccolta firme per chiedere a otto Presidenti di Regione di abrogare le Leggi regionali che istituiscono i “campi nomadi” in Italia.
Il rapporto “Figli dei campi” è stato presentato al pubblico mercoledì 11 dicembre all’Auditorium San Fedele di Milano all’interno dell’evento “Container 158”.

Scarica il rapporto “Figli dei campi”

Fonte: 21luglio.org