• Articolo pubblicato il 29 Ottobre 2013

Presentazione  di progetti sperimentali e innovativi di volontariato, presentati dalle organizzazioni di volontariato legalmente costituite da almeno due anni.

I progetti devono essere presentati da organizzazioni di volontariato, anche in parteneriato, legalmente costituite da almeno due anni alla data di pubblicazione costituite da almeno due anni – alla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana della comunicazione dell’avvenuta pubblicazione sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali delle linee di indirizzo 2013 – e regolarmente iscritte nei registri regionali/provinciali del volontariato (art. 6, legge 266/1991).

La domanda di contributo, il connesso formulario ed il relativo piano economico ( All. 1), devono essere compilati e quindi inviati al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – Direzione generale per il Terzo Settore e le  Formazioni Sociali esclusivamente attraverso la piattaforma www.direttiva266.it, a pena di inammissibilità.

L’invio online delle domande di contributo attraverso la succitata piattaforma informatica dovrà avvenire entro e non oltre le ore 13.00 del giorno 14 novembre 2013.

Anche per il 2013 c’è la possibilità per le organizzazioni di volontariato richiedenti il contributo di inserire come quota parte a loro carico – pari al 10% del costo complessivo del progetto – “la valorizzazione delle attività di volontariato”, che non costituiscono un costo, ma la stima figurativa del corrispondente costo reale che può essere soggetta solo ed esclusivamente a valorizzazione relazionale di tipo quali-quantitativo.

Le disponibilità finanziarie per l’anno 2013 ammontano ad Euro 1.895.118,00.

Fonte: www.synagosrl.com

  • Articolo pubblicato il 28 Ottobre 2013

Foto imbarazzanti, post e frasi compromettenti, confessioni, sfoghi, ma anche numeri della carta di credito, contatti telefonici, indirizzi, dati sensibili: in rete si trova di tutto. E non per una qualche macchinazione ordita dal governo o da improbabili società segrete che ci spiano, ma perché tutte quelle informazioni private e riservate ce le mettiamo noi, a volte con cognizione di causa, molto più spesso con leggerezza, ma soprattutto perché è ormai inevitabile. “Siamo nella cosiddetta ‘era biomediatica’, in cui a regnare è il soggettivismo spinto, ed è centrale la condivisione telematica delle biografie personali, soprattutto attraverso i social network” spiega Giuseppe Roma, direttore generale del Censis, durante la presentazione della ricerca intitolata “Il valore della privacy nell’epoca della personalizzazione dei media”, commissionata dall’ente. Una ricerca in cui si riflette proprio su come sia cambiata la percezione della privacy in Italia con l’avvento del web 2.0, in un mondo digitale che sempre più coincide con quello reale e in cui l’imperativo è la condivisione, pena l’esclusione. A quale prezzo, però, in termini di protezione dell’identità personale?

Il vero problema è che ancora non lo sappiamo con certezza. “I ragazzi in rete scambiano tutto, e il 60% di loro sono convinti che le funzionalità, ad esempio di Facebook, siano sufficienti per gestire la propria privacy e facili da usare – commenta Luca De Biase, giornalista del Sole24Ore – Il dilemma non è più ‘to be or not to be’ ma ‘to share or not to share’, condividere o non condividere. Il risultato però è lo stesso, perchè se non condividi significa che in rete non esisti”. Eppure, secondo la ricerca del Censis, per il 96,2% degli italiani la riservatezza dei dati personali sarebbe un dato inviolabile, tanto che immettere i propri dati online genererebbe una forte apprensione: “Più di otto italiani su dieci sono convinti che su Internet sia meglio non lasciare tracce (l’83,6%), e credono che fornire i propri dati personali sul web sia pericoloso perchè espone al rischio di truffe, mentre l’83,3% teme che molti siti estorcano questi dati senza che gli utenti se ne accorgano. Secondo il 76,8% anche usare la carta di credito per effettuare acquisti online è rischioso” afferma Giuseppe Roma, sempre illustrando i risultati della ricerca.

E qui arriva l’altra contraddizione. Perché, sebbene la percezione del rischio sia così elevata, soltanto una minoranza di utenti di Internet sembra in grado di adottare una qualche forma di “gestione attiva” della privacy: “Solo il 40,8% di chi naviga in rete usa almeno una delle misure di salvaguardia della propria identità digitale, come la limitazione dei cookie, la personalizzazione delle impostazioni di visibilità dei social network, la navigazione anonima. Il 36,7% non ricorre a nessuno strumento, mentre il 22,5% si limita a forme passive di autotutela, che a volte implicano la rinuncia a ottenere un servizio via web”. Pensiamo all’iscrizione a un determinato sito o all’installazione di una app: quanti di noi si leggono tutto quel papiro su consensi e permessi? E anche se fosse, quanti comprendono veramente il senso di tutti i vari punti legali? A regnare è insomma la fiducia, unita a una forte dose di rassegnazione (dal 61% al 74% degli internauti ritiene di avere uno scarso o nessun controllo sui propri dati personali) e tanta “distrazione”, soprattutto nella condivisione di status privati nei social network.

Sempre secondo i dati del Censis, infatti, l’88,4% degli naviganti è consapevole che i grandi operatori del web, come Google e Facebook, possiedono gigantesche banche sugli utenti. I dati personali hanno infatti un valore economico rilevante, si sa che possono essere usati sia a fini commerciali (si pensi alle pubblicità mirate che ormai abbiamo imparato a conoscere e riconoscere) sia politici (Obama ci ha basato la campagna elettorale), e non è da sottovalutare la questione della sorveglianza, come il caso Snowden insegna. “Il fatto è che oggi, se voglio esserci in rete, è difficile non avere conseguenze in termini di privacy – rimarca ancora Roma. Subentra perciò una negoziazione, un arbitraggio su quello che ‘io’ decido di rendere pubblico”. A questo proposito, il giornalista De Biase cita il concetto di “privacy sommersa”: “In realtà – spiega – io costruisco un personaggio in rete coerente con quello che voglio che sia l’immagine di me in pubblico. Proprio in questo modo proteggo la mia privacy, che rimane fuori dalla rete”.

Eppure, se è vero che c’è chi sta molto attento ed effettua un’accurata selezione delle informazioni che vuole dare di sé, soprattutto tra i più giovani si tende a fare confusione e a usare la rete con leggerezza. Per non parlare degli “errori di gioventù”, che sul web possono diventare indelebili. Per questo, secondo la ricerca del Censis, particolare favore riscuote l’ipotesi di introdurre nell’ordinamento giuridico il “diritto all’oblio”, con oltre il 70% degli italiani convinto che le informazioni personali sul nostro passato potenzialmente negative o imbarazzanti dovrebbero poter essere cancellate dalla rete quando non sono più funzionali al diritto di cronaca. Di recente, in California è stata introdotta una nuova legge che, a partire dal 2015, darà la facoltà ai minori di poter cancellare il proprio passato digitale se compromettente per il proprio futuro scolastico o lavorativo (in Usa, ad esempio, è ormai prassi il controllo del profilo Facebook da parte delle aziende di coloro che si apprestano ad assumere). A prescindere dalle falle che una legge del genere può presentare – e se il contenuto ormai è già rimbalzato per la rete? E gli adulti? – si capisce come ormai il tema sia divenuto centrale per la nostra società a livello globale.

Se il presidente dell’autorità Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, e il presidente del Censis Giuseppe De Rita parlano di dominio dei contenuti e dei “gruppi” come peculiarità del web 2.0, entrambi sono convinti che i soli strumenti giuridici siano inadeguati, nonostante il 54% degli italiani sia favorevole a una legislazione sulla privacy più rigorosa. “Il diritto da solo non basta – spiega Soro – è necessario che evolva anche l’atteggiamento culturale”. Per questo, il punto chiave diventa una maggiore consapevolezza, ovvero non essere schiavi del processo. “Ogni strumento in rete funziona con tecnologie complicate, ma si serve di interfacce che noi chiamiamo metafore, molto più facili da capire – termina De Biase – La metafora di Facebook, ad esempio, è l’amicizia: il sistema è complicatissimo ma tutti sappiamo usarlo perché sappiamo come comportarci con gli amici. Il dopo-Facebook potrebbe essere un’altra metafora che ancora ci manca, ovvero quella per il comportamento civico e dei nostri diritti giuridici”. De Biase si dice sicuro che, negli “scantinati di internet” dove spesso nascono le grandi innovazioni, “se ne sta già parlando”. (Anna Toro)

Fonte: unimondo.org

  • Articolo pubblicato il 28 Ottobre 2013

Quanti possono dire di non essersi mai seduti perplessi davanti al proprio armadio interrogandosi sull’inutile quantità di vestiario che lo stipa? Pochi. C’è chi semplicemente è incapace di lasciare i vecchi ricordi indossati in passato e chi non resiste all’ultima moda, accumulando le penultime ancora nuove. Ma se escludiamo chi virtuosamente rammenda e riadatta i vecchi vestiti, in molti sarebbero disposti a donare i propri abiti e accessori usati ancora in buono stato, anche se nel nostro Paese la cultura del riutilizzo e non del rifiuto non ha sempre vita facile ed è ancora nettamente inferiore alla media europea. Per Humana People to People Italia “servirebbe per questo un quadro normativo più chiaro e completo, che garantisca la corretta gestione degli abiti usati attraverso il controllo di tutta la filiera”. Il settore in Italia non è, infatti, ancora ben regolamentato e ciò, come ha spiegato all’agenzia Dire Humana, la onlus nata nel 1998 per sostenere e realizzare progetti di sviluppo nel Sud del mondo, “comporta rischi legati alla trasparenza dei soggetti che vi operano, e al contempo espone le amministrazioni pubbliche al pericolo di infrangere le disposizioni normative”.

Il risultato? In Italia nel solo 2012 sono state raccolte in maniera differenziata 99.900 tonnellate di rifiuti tessili, pari solo al 12% del totale raccoglibile. Ma se delle 99.900 tonnellate di rifiuti tessili raccolte nel 2012, “il 68% viene riutilizzato, il 25% riciclato e solo il 7% è avviato a smaltimento”, si può e si deve fare di meglio perché “la raccolta di abiti e accessori usati in Italia è di circa 1,6 kg/persona annui, un dato nettamente inferiore alla media europea, soprattutto se si considera che il consumo di prodotti tessili si assesta sui 14 kg/persona annui”. Per questo l’obiettivo dell’amministrazione pubblica “dovrebbe essere quello di incrementare la raccolta dei vestiti, e quindi ridurre la percentuale di frazione tessile che confluisce nel rifiuto urbano indifferenziato”, ha spiegato Humana.

Questo poco edificante risultato è emerso durante l’edizione 2013 dell’HUMANA People to People Day celebrata il 3 ottobre scorso a Roma presso la Camera dei Deputati con il convegno “La cultura del riutilizzo eccellenza della green economy. La raccolta degli abiti usati per una nuova etica d’impresa”. Un’iniziativa che quest’anno ha voluto racchiudere nello slogan Our Climate Our Challenge il tema dei cambiamenti climatici e dei suoi effetti evidenziando come ambiente e popolazioni, specialmente nel Sud del mondo, stiano già subendo danni considerevoli causati da eventi atmosferici violenti, siccità e alluvioni. Ma se la lotta ai cambiamenti climatici passa anche attraverso la tutela delle risorse naturali allora il riutilizzo degli abiti diventa una pratica importante generando attività produttive nel Nord e nel Sud del mondo, abbattendo i costi ambientali ed economici e consentendo la realizzazione di progetti sociali. Questi ultimi sono tra l’altro la ragione principale per cui le persone spesso destinano i propri oggetti al riutilizzo, a partire dagli abiti usati. Il settore, ha spiegato la presidente di Humana, Karina Bolin è, infatti, “storicamente legato a scopi sociali. Gli operatori del terzo settore, grazie alla raccolta di vestiti usati, riescono a svolgere attività umanitarie in Italia ed all’estero, a titolo gratuito per la collettività e con un vantaggio sociale maggiore rispetto al valore economico della raccolta stessa: così un potenziale rifiuto si trasforma in risorsa. Purtroppo, nella normativa attuale permangono molti elementi di criticità”. Per la Bolin “una legge chiara dovrebbe valorizzare l’impatto sociale e umanitario e richiedere agli operatori l’obbligo di trasparenza dell’intera filiera, dalla raccolta degli abiti usati fino alla loro destinazione finale attraverso una rendicontazione adeguata”. Oggi invece capita che “l’attività di raccolta inganni di frequente i cittadini, inducendoli a pensare che i vestiti siano destinati a un’attività sociale: al contrario in questo settore si muovono molti operatori non in regola, spesso non controllati dalle istituzioni sprovviste dei necessari strumenti per fare le opportune verifiche”.

Una risorsa, quindi il riuso, che all’interno di un quadro normativo più chiaro e completo, che garantisca la corretta gestione degli abiti usati attraverso il controllo di tutta la filiera, “potrebbe portare a un incremento della raccolta fino a 3-5 kg/persona, pari a 240.000 tonnellate – ha spiegato la Bolin – ciò garantirebbe alle amministrazioni pubbliche notevoli risparmi nello smaltimento dei rifiuti, creando al contempo nuove opportunità economiche”. Ora, invece, solo 1 vestito usato su 10 può essere raccolto e i comuni “si ritrovano spesso a gestire la raccolta in emergenza e interpretando la legge, perché il testo unico dell’ambiente non disciplina in maniera completa il settore della frazione tessile” ha concluso la presidente di Humana.

Ma non esiste solo un problema di trasparenza e una prevedibile perdita economica dietro all’attuale normativa. “Tra le nuove frontiere dell’ecomafia bisogna annoverare il traffico di rifiuti derivanti dalla dismissione di indumenti usati” ha aggiunto il direttore di Legambiente, Rossella Muroni, che ha partecipato al convegno ricordando come “il materiale recuperato dalla raccolta porta a porta, dovrebbe essere destinato a trattamento igienizzante e poi a un centro per la rivendita o lo smaltimento, secondo la legge”. La criminalità organizzata invece, “spesso con la complicità delle aziende produttrici dei rifiuti, preleva gli abiti scartati, seleziona il rivendibile senza effettuare nessun trattamento igienizzante e smaltisce illegalmente il resto, che spesso finisce disperso nell’ambiente o viene bruciato”, ha concluso la Muroni.

Se è vero che la raccolta e il riuso degli abiti usati hanno un impatto positivo sull’ambiente e sull’economia, come da anni sostiene anche un brand come Patagonia che invita a monte i consumatori attraverso il suo Common Threads Partnership a “non comprare ciò che non vi serve davvero”, e a “riusare i capi di abbigliamento che altrimenti potrebbero impolverarsi nei vostri armadi o finire in una discarica”, ora anche in Italia qualcosa può cambiare a cominciare proprio dall’HUMANA People to People Day che ha raccolto la case history del “riuso all’italiana” con l’obiettivo di stabilire un dialogo con le Istituzioni e i principali operatori del settore per venire meglio incontro alle ong e ai cittadini. (Alessandro Graziadei)

Fonte: unimondo.org

 

  • Articolo pubblicato il 20 Ottobre 2013

On line i primi servizi con foto e video dell’evento “Nuove generazioni protagoniste”.

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Promosso dalla Cabina di Regia  L. 285/97 di Roma Capitale in collaborazione con la Fondazione Mondo Digitale, l’evento “Nuove generazioni protagoniste – la legge 285/97 a Roma” si è svolto lo scorso 16 ottobre, nella Città educativa della capitale.  La giornata è stata occasione per raccontare 15 anni di progetti realizzati con i fondi della legge per l’infanzia e l’adolescenza e analizzare punti di forza e criticità per una prospettiva futura.

L’evento è stato seguito con interesse dalla stampa, dalle tv ai quotidiani.

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  • Articolo pubblicato il 17 Ottobre 2013

Scoraggianti i risultati della nuova indagine Isfol-Piaac sulle competenze degli adulti (16-65enni). Vittoria Gallina: «Disastro Neet e va sprecato il patrimonio culturale delle donne».
di Luca Aterini

educazione scuola ricerca

Leggere, scrivere e saper far di conto: le chiavi in grado di liberare dai lacci dell’analfabetismo un tempo ci si aspettava potessero anche aprire le porte di una carriera lavorativa soddisfacente, frutto di un’educazione adeguata. Il livello delle competenze richieste aumenta col passare degli anni, ma il problema è che l’Italia continua a registrare performance da ultima della classe. I risultati della nuova indagine Isfol-Piaac sulle competenze degli adulti (16-65enni) italiani sono scoraggianti.

Come si legge all’interno dello studio, nelle «competenze alfabetiche (literacy) il punteggio medio degli adulti italiani tra i 16 e i 65 anni è pari a 250, punteggio significativamente inferiore rispetto alla media OCSE dei Paesi partecipanti all’indagine (273 punti); nelle competenze matematiche (numeracy) il punteggio medio degli adulti italiani tra i 16 e i 65 anni è pari a 247, punteggio significativamente inferiore rispetto alla media OCSE dei Paesi partecipanti all’indagine (269 punti)».

Ricordiamo qui che la scala della valutazione adottata è composta da 5 scalini, e il livello 3 è quello che certifica in un cittadino la presenza di competenze che permettono di interagire in modo efficace nei contesti di vita e di lavoro. Si tratta, in sostanza, del livello minimo, della sufficienza.

Ebbene, gli italiani «si collocano in maggioranza al livello 2 sia nella literacy (42,3%) che nella numeracy (39,0%), mentre il livello 3 o superiore è raggiunto dal 29,8% della popolazione in literacy e dal 28,9% in numeracy, mentre i più bassi livelli di performance (livello 1 o inferiore) vengono raggiunti dal 27,9% della popolazione in literacy e dal 31,9% in numeracy». Dunque, più del 70% della popolazione italiana rientra ancora oggi (le rilevazioni, promosse dall’Ocse, sono state svolte nel 2011-2012, ndr) nei limiti di quello che viene classificato come vero analfabetismo, l’analfabetismo funzionale (che ricomprende quei casi in cui un percorso scolastico è stato portato avanti, ma la capacità di utilizzare gli strumenti appresi rimane molto ridotta).

Quali sono le principali novità rispetto alle passate analisi sul campo, che già certificavano l’emergenza? Come sottolinea Vittoria Gallina – l’esperta di educazione in età adulta e di processi di Life Long Learning che fa parte del think tank di greenreport.it – diminuisce «la quota di popolazione che rientra nel livello 1, ma siamo ultimi per quanto riguarda la classifica di literacy e penultimi, dopo la Spagna, per quanto riguarda la numeracy». Questa di Isfol-Piaac è anche la prima indagine che affronta in modo specifico «le competenze dei Neet (giovani fino a 29 anni che né studiano né lavorano, ndr), e questo è tristemente interessante perché, da quello che si vede, le loro competenze sono più limitate rispetto a quelle dei coetanei inseriti in un contesto lavorativo o di studio».

Parallelamente, una simile riflessione è possibile farla anche per le donne. Le ragazze registrano in media risultati uguali o migliori rispetto ai maschi, sia in literacy che numeracy, e vale ovviamente anche per le giovani disoccupate. «Questo ci pone di fronte un grosso problema – osserva Gallina – le donne presentano un patrimonio culturale significativo, che noi però non siamo capaci di far fruttare bene. Le donne in particolare vengono spesso occupate senza che il loro potenziale di maggiori competenze venga usato fino in fondo». E, come si sottolinea nello studio Isfol-Piaac, le competenze non esercitate nel tempo vanno progressivamente a perdersi.

Come l’Italia possa pensare di risollevarsi dalla sua condizione economicamente (e ancor prima socialmente) prostrata senza ripartire dal costruirsi quelle solide basi educative che ancora le mancano rimane un mistero. Anzi, assume sempre di più l’immagine di una certa disfatta. Le potenzialità di quella che dovrà essere l’economia del XXI secolo, la green economy, sono dispiegabili soltanto in un contesto dove il capitale umano è adeguatamente formato per cavalcare l’onda di innovazione e responsabilità che l’economia verde comporta. Con tali deficit educativi non soltanto la nostra economia, ma anche la nostra democrazia continuano a essere azzoppate.

Significativamente, i Paesi che si collocano sopra la media OCSE sono Giappone, Finlandia, Paesi Bassi, Australia, Svezia, Norvegia, Estonia e Belgio, che collocano la popolazione di appartenenza al livello 3 (comunque, soltanto la sufficienza!). Curiosamente, tra i Paesi che si collocano  significativamente al di sotto della media troviamo anche alcuni campioni della modernità: Danimarca, Germania, Stati Uniti, Austria, Cipro, Polonia, Irlanda, Francia, Spagna e Italia, la cui popolazione si colloca al livello 2. Se per imbastire un nuovo periodo di successi per la storia italiana si ripete continuamente che dobbiamo recuperare in competitività con l’estero, lo studio Isfol-Piaac ci dice proprio che l’educazione è il primo fattore su quale puntare per raggiungere un vantaggio comparato rispetto ai nostri diretti (e anche illustri) concorrenti. Ora che il quadro (per l’ennesima volta) è stato tracciato non resta che agire. Senza competenza, infatti, come può esserci competitività? E non parliamo della sostenibilità…

Fonte: Green Report

  • Articolo pubblicato il 15 Ottobre 2013

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – Avviso relativo al Programma Obiettivo 2013 per l’incremento e la qualificazione dell’occupazione femminile, mediante l’inserimento e il reinserimento nel mercato del lavoro, sviluppo e consolidamento di imprese femminili.

L’Avviso prevede i seguenti ambiti di intervento:

1.  OCCUPAZIONE E REINSERIMENTO LAVORATIVO

1.a) Occupazione

Destinatarie : giovani donne under 35.

1.b) Reinserimento lavorativo

Destinatarie : donne over 35.

2.  CONSOLIDAMENTO DI IMPRESA

Destinatarie delle azioni sono: imprese femminili attive da almeno due anni, preventivamente identificate e indicate nel progetto. I progetti dovranno prevedere una o più delle azioni indicate.

Sarà data preferenza a macroiniziative di particolare complessità e valenza per la cui attuazione sarà concesso un contributo minimo di € 60.000 (sessantamila).

Termine di presentazione delle domande: entro il 30 novembre 2013

Fonte: www.synagosrl.com

  • Articolo pubblicato il 14 Ottobre 2013

La ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge, e la Viceministro con delega alle Pari Opportunità, Maria Cecilia Guerra, il 13 novembre presenteranno la nuova edizione del Dossier Statistico Immigrazione “Diritti e discriminazioni”. Il Dossier evidenzia, con il supporto di dati statistici, come l’immigrazione stia modificando il tessuto sociale e i modelli di sviluppo attuali, attraverso una lente che si concentra sulla dinamica dei diritti e dei doveri. Un particolare focus sarà dedicato al problema delle discriminazioni che ostacolano il processo di una piena integrazione delle persone di origine straniera nella società, sottolineando le tante luci ed ombre che ha ancora l’immigrazione in Italia, ma anche  le prospettive di miglioramento derivanti da una piena attuazione dei principi di pari opportunità e parità di trattamento.

La ricerca è stata curata dall’UNAR con il Centro Studi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico. Nei 75 capitoli previsti, i redattori di IDOS e numerosi esperti e studiosi esterni sono stati chiamati a collaborare e a fornire il proprio ausilio per offrire un panorama completo e a più voci di tutti gli aspetti del fenomeno migratorio, dal contesto internazionale allo scenario nazionale, con focus specifici dedicati alle singole regioni.

«L’obiettivo della ricerca attraverso questa informazione a tutto campo» spiega il Viceministro Guerra «è fornire una conoscenza adeguata delle condizioni in cui versano gli immigrati in Italia, stigmatizzando chiusure e discriminazioni ma anche indicando le buone pratiche e le prospettive di una più fruttuosa convivenza informata ai principi della uguaglianza e delle pari opportunità per tutti».

Il Dossier UNAR 2013 sarà distribuito gratuitamente nei numerosi eventi di sensibilizzazione che si susseguiranno, a partire dalla presentazione del 13 novembre, che avverrà in contemporanea a Roma e in tutti i capoluoghi regionali. La presentazione del Dossier a Roma avverrà alle ore 10.30 presso il Teatro Orione, Via Tortona 7 (Re di Roma).

Per la Kyenge «con il Dossier 2013 si compie un decisivo passo in avanti perché è importante saper spiegare l’immigrazione a tutti, saperne parlare non solo agli addetti ai lavori ma anche a tutta la gente comune che sente parlare di immigrazione solo dai telegiornali quando l’immigrazione diventa cronaca nera, misconoscendo i tanti aspetti positivi che la presenza delle persone immigrate ha per il nostro Paese. La posta in gioco è alta – prosegue la Kyenge – occorre un cambio di mentalità, un cambio di passo che rafforzi un impegno condiviso per fare dell’Italia un Paese più aperto alle persone immigrate, dove esse siano considerate un’opportunità e non un problema coinvolgendole maggiormente nello sviluppo del Paese».

Fonte: integrazione.gov.it

  • Articolo pubblicato il 14 Ottobre 2013

Relazione annuale – Rilevazione esperienze significative

A cura della Cabina di Regia L. 285/97 – Roma Capitale

Nel corso dell’anno 2012 la Cabina di Regia per la legge 285/97, in risposta tanto alle richieste del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e l‟Adolescenza, quanto alle esigenze dettate dalla nuova modalità di gestione
adottata da Roma Capitale, ha aggiornato e potenziato l’attuale sistema di monitoraggio anche attraverso l’attivazione di processi e strumenti per l’identificazione e la diffusione di esperienze particolarmente significative.

Le esperienze significative sono state individuate attraverso un sistema strutturato di visite in loco presso le sedi operative degli interventi, il che ha permesso di approfondirne la conoscenza raccogliendo e analizzando elementi rispetto a diverse dimensioni, in particolare: innovatività,
efficacia ed adeguatezza dell’impianto progettuale, partecipazione, rete, sostenibilità, trasferibilità e riproducibilità dell’esperienza, rilevanza per le policy di settore.

Settembre 2013

 

  • Articolo pubblicato il 14 Ottobre 2013

Studio per la determinazione a titolo sperimentale dei livelli essenziali delle prestazioni sociali da assicurare ai minorenni che ricadono sotto la giurisdizione di Roma Capitale

A cura di Martino Attilio Rebonato

La questione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali (LEPS) è da anni al centro dell’attenzione dei decisori e degli operatori sociali, in particolare dopo l’approvazione della legge 328 (art. 22) e della riforma del Titolo V della Costituzione.

La Pubblicazione è realizzata da Assist srl con il finanziamento della legge 285/97, nell’ambito del progetto “Disagio minorile e diritti delle persone minori d’età”, in collaborazione con la Cabina di regia Legge 285/97 – Dipartimento per la Promozione dei servizi sociali e della salute di Roma Capitale.

Roma, Gennaio 2013

  • Articolo pubblicato il 14 Ottobre 2013

Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione della Legge 285/97 a Roma

A oltre 10 anni dall’avvio del Piano Territoriale Cittadino Legge 285/97, la Cabina di regia, nell’ambito delle proprie funzioni, ha realizzato, con il supporto di risorse esterne, un’indagine conoscitiva sullo stato di attuazione della L. 285/97 a Roma. La ricerca ha analizzato gli interventi finanziati dalla L. 285/97 al fine di elaborare una descrizione che raccogliesse elementi quantitativi e qualitativi, realizzando una lettura trasversale degli stessi, interpellando direttamente gli attuatori, coinvolgendo i referenti municipali quali testimoni privilegiati.

A cura di Assist srl

Roma, agosto 2012