• Articolo pubblicato il 27 Luglio 2012

Cuochi, camerieri, segretarie, addetti alla pulizia e alle persone, operai specializzati nell’edilizia, addetti all’accoglienza, conduttori di impianti industriali, addetti alla sanitaà e al sociale, operai specializzati nell’industria alimentare, legno e carta sono le professioni che dovrebbero registrare la crescita più significativa in termini di assunzioni in questo periodo di dura crisi economica.
Alla realizzazione di questo “borsino” delle professioni in tempo di crisi ci ha pensato la CGIA di Mestre che ha elaborato i dati presentati qualche giorno fa dall’Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior. I dati si riferiscono alle previsioni di assunzione previste dagli imprenditori italiani nella periodica indagine campione realizzata dall’Unioncamere. Il risultato finale è stato ottenuto mettendo a confronto i dati emersi nel terzo trimestre 2012 e quelli relativi allo stesso periodo dell’anno precedente.
“Sono professioni- commenta il segretario della Cgia di Mestre- legate, in particolar modo, alle attività che caratterizzano la nostra economia: come il turismo/ristorazione, i settori del made in Italy, la sanià ed il sociale. Mestieri non sempre di altissima specializzazione, ma indispensabili per mantenere in piedi i settori che stanno dando un contributo importante alla tenuta economica e occupazionale del nostro Paese “. Complessivamente queste professioni dovrebbero garantire 20.000 posti di lavoro in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Fonte: Agenzia Dire

  • Articolo pubblicato il 23 Luglio 2012
Partirà il 10 settembre il Censimento Istat delle istituzioni non profit che servirà anche a realizzare un registro statistico delle istituzioni non profit, che potrà essere aggiornato annualmente. Il censimento sarà presentato con un evento di lancio tra la fine di agosto e i primi di settembre.
L’ultimo rilevamento dell’Istat sul non profit risale a 10 anni fa e oggi, più di allora, il panorama italiano del settore risulta vasto e frammentato, così come lo è il quadro normativo di riferimento. Questo ha reso necessaria l’attuazione di liste precensuarie, realizzate attraverso l’integrazione di una serie di fonti amministrative e statistiche. Questa una delle innovazioni sul versante metodologico del censimento 2012.
Secondo Sabrina Stoppiello, ricercatrice dell’Istat e coordinatrice del rilevamento, che ha presentato il piano: “La lista precensuaria costituisce un solido supporto alla rilevazione statistica, in quanto permette di identificare le unità di rilevazione; personalizzare i questionari che saranno recapitati direttamente alle istituzioni da rilevare; predisporre gli elenchi di riferimento delle unità, per gli organi di censimento; acquisire informazioni qualitativamente affidabili sulle caratteristiche principali delle unità istituzionali censite (desumibili dalle fonti di input) utili al controllo della qualità dei dati rilevati. Inoltre il processo di costruzione della lista così implementato, a partire proprio dalla valutazione dei risultati del censimento, porrà le basi metodologiche per la predisposizione di un registro statistico delle istituzioni non profit che, una volta a regime, potrà essere aggiornato annualmente tramite l’integrazione delle informazioni presenti in differenti fonti amministrative e/o statistiche. Tale registro costituirà la base di riferimento per la realizzazione di indagini di approfondimento (condotte negli anni successivi al censimento) sulle particolari tipologie istituzionali che compongono il settore non profit”.

Esistono  vari archivi settoriali, gestiti da enti diversi, relativi a particolari tipologie istituzionali, inerenti essenzialmente specifici riconoscimenti giuridici e/o adempimenti o agevolazioni fiscali, l’integrazione dei quali è avvenuta attraverso una metodologia complessa e articolata. Il processo di costruzione della lista precensuaria è stato strutturato in diverse fasi, che prevedono la realizzazione di procedure di trattamento e analisi approfondita di tutte le informazioni disponibili.
Le fonti incluse nel processo sono state distinte in base alla loro natura e alla loro pertinenza rispetto al settore non profit: a) fonti settoriali pertinenti il settore non profit; b) rilevazioni statistiche esaustive rispetto a particolari tipologie istituzionali; c) fonti “omnicomprensive” (archivi amministrativi che includono diverse tipologie di soggetti giuridici: imprese, aziende agricole, istituzioni pubbliche e private).
Il confronto e l’integrazione dei dati a disposizione ha permesso di selezionare e includere nella lista esclusivamente le unità considerate eleggibili, quindi non profit, sulla base di alcuni elementi fondamentali: l’appartenenza agli archivi settoriali pertinenti il settore non profit; la forma giuridica assunta; la stima dello stato di attività.
L’attività di progettazione e realizzazione del processo di costruzione della lista precensuaria è stata condotta da un team che ha lavorato al progetto per diversi anni (2008-2012), a cui hanno perso parte esperti metodologi, ricercatori e informatici dell’Istituto, affidato al coordinamento di Sabrina Stoppiello.
  • Articolo pubblicato il 20 Luglio 2012

Nel giorno di avvio della Conferenza di Rio de Janeiro sullo sviluppo sostenibile, Cnel e Istat, in condivisione con la comunità scientifica e, per la prima volta, anche con la società civile, hanno selezionato un set di 134 indicatori per rappresentare le 12 dimensioni del benessere equo e sostenibile definite lo scorso ottobre.
Negli ultimi anni il dibattito sulla capacità del prodotto interno lordo (Pil) di fornire un’immagine corretta della realtà è stato vivacissimo. Il Pil, infatti, in quanto misura quantitativa della produzione realizzata dal sistema economico, non offre una visione complessiva del progresso di una società. Per fare questo deve essere integrato con altri indicatori dei fenomeni che influenzano la condizione dei cittadini, quali la salute, la sicurezza, il benessere soggettivo, le condizioni lavorative, il benessere economico, la disuguaglianza, lo stato dell’ambiente, ecc.
Tuttavia, il concetto di benessere cambia secondo tempi, luoghi e culture. La sua misurazione richiede, quindi, non soltanto indicatori affidabili e tempestivi, ma anche la definizione di un quadro concettuale e il coinvolgimento di tutti i settori della società, così da assicurare la legittimazione democratica necessaria per un suo utilizzo condiviso da parte di tutta la società.
Per affrontare questa sfida il Cnel e l’Istat hanno costituito nel dicembre 2010 un “Comitato di indirizzo sulla misura del progresso della società italiana”, composto da rappresentanze delle parti sociali e della società civile: non solo, quindi, organizzazioni sindacali e associazioni di categoria, ma anche associazioni di volontariato, associazionismo femminile, associazioni ambientaliste ecc., che per la prima volta hanno lavorato insieme per l’individuazione del set di indicatori fondamentali per misurare il benessere.
L’obiettivo del Comitato, in analogia a quanto sta avvenendo in altri paesi, è stato quello di sviluppare un approccio multidimensionale e condiviso basato sul concetto di “benessere equo e sostenibile” (Bes), ovvero un nuovo modo per leggere la realtà affiancando alle misure economiche una serie di indicatori non economici fondamentale anche nella progettazione delle politiche pubbliche.
Per realizzare questo obiettivo l’Istat ha svolto il ruolo di coordinamento scientifico dell’iniziativa, avvalendosi di una Commissione scientifica di esperti, mentre il Cnel ha rappresentato il punto di riferimento fondamentale per la sintesi delle diverse istanze della società.

Fonte: aiccon.it

  • Articolo pubblicato il 18 Luglio 2012

Su iniziativa del Ministro Riccardi, l’Associazione nazionale dei Comuni Italiani ha accolto la proposta di riflettere sull’anomalia, tutta italiana, che interessa il mercato dei prodotti per la prima infanzia i cui prezzi sono superiori di circa il 40% rispetto agli altri paesi europei.
Appare che sui cittadini, e in particolare sulle famiglie con figli piccoli, gravi una tassa occulta iniqua e ingiustificata e che sia necessario per le istituzioni, nel momento di crisi profonda che sta attraversando il nostro Paese, rimanere vicine alla cittadinanza, avviando azioni concrete sui territori a sostegno delle famiglie.
A seguito della sottoscrizione, lo scorso 13 giugno, di un Protocollo di intesa tra il Ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione, l’Anci, Federsanità e A.S.So.Farm., viene avviata una Campagna nazionale per la riduzione dei prezzi dei prodotti per la prima infanzia nelle farmacie comunali.
La Campagna, che nella prima fase, dal 1 luglio al 31 dicembre 2012, avrà forma sperimentale è finalizzata, attraverso l’adesione su base volontaria delle farmacie comunali, al riallineamento dei prezzi di vendita di un paniere di prodotti per la prima infanzia ai livelli europei.
L’obiettivo è quello di aiutare le giovani coppie con figli, coinvolgendo le ditte produttrici di prodotti per la prima infanzia e sensibilizzando anche le farmacie private a praticare iniziative analoghe.

Fonte: primainfanzia.anci.it

  • Articolo pubblicato il 16 Luglio 2012

Negli Stati Uniti si sono chiesti cosa succederebbe se le associazioni andassero in default. Un rischio da evitare a tutti i costi.

Troppo importanti per fallire. Questo è il titolo di un articolo apparso su Huffington Post, in cui si analizza la crisi (soprattutto finanziaria) delle organizzazioni non profit americane e l’impatto che questa crisi, se non risolta, potrebbe avere su vasta scala.
Secondo gli ultimi dati ufficiali del Census Bureau, riferiti al 2010, ben 46,2 milioni di americani vivono in povertà, e uno su cinque è un bambino. Nel 2007 erano il 2,6% in meno. Si capisce dunque come sia essenziale, in questa situazione, il lavoro del non profit, da sempre a fianco dei più deboli. Eppure, a sentire il professor Scott Allard dell’ Università di Chicago, “la crisi ha impattato negativamente sui redditi privati e quindi sulle entrate statali, riducendo i finanziamenti al terzo settore. E visto che i poveri non hanno potere, i servizi sociali sono la prima voce di costo a essere tagliata”.
“Negli Stati Uniti – continua l’esperto interpellato dall’Huffington Post – questi servizi sono finanziati prevalentemente dal pubblico, ma vengono quasi sempre erogati da soggetti privati, ovvero organizzazioni non profit con base locale. La spesa totale diretta a sostenere i ceti meno abbienti negli Stati Uniti oscilla tra i 150 e i 200 miliardi di dollari l’ anno, contando sia i finanziamenti pubblici che quelli privati. Per ogni dollaro che arriva cash nelle tasche dei poveri, lo Stato spende dai 15 ai 20 dollari in servizi sociali. Gli americani preferiscono che siano le organizzazioni non profit a contattare direttamente i bisognosi, lo trovano più umano”.
Le organizzazioni non profit sono quindi diventate parte essenziale del tessuto sociale delle comunità locali americane. Il numero di quelle registrate supera il milione, con una crescita del 59% dal 1999 al 2009. Poco più di un terzo di loro (circa 368mila) sono “public charities” con entrate superiori ai 25mila dollari annui, non sono confessionali e non sono in alcun modo legate allo Stato o ad aziende private. In totale, queste organizzazioni hanno dichiarato entrate per 1,4 triliardi di dollari e asset per 2,5 triliardi, secondo i dati del National Center for Charitable Statistics (NCCS).
La maggior parte di esse hanno dimensioni ridotte (solo il 17% ha entrate superiori al milione di dollari); solo il 13% ha entrate comprese tra 1 e 10 milioni di dollari e solo il 4% supera i 10 milioni di dollari; a queste ultime, circa 63mila a livello nazionale, è riconducibile il 96% dei profitti di tutte le public charities degli Usa.
E’ dunque facile capire come moltissime organizzazioni non profit, pur contando su un discreto ammontare di risorse, realizzino margini di guadagno risicati. Secondo l’indagine 2012 del Nonprofit Finance Fund sullo stato del terzo settore, il 56% delle organizzazioni intervistate hanno chiuso in deficit o in pareggio il 2011. Inoltre il 9% ha dichiarato di non avere liquidità, il 16% di avere fondi per operare non oltre un mese e il 32% non oltre tre mesi. La conclusione dell’indagine è stata chiara: l’aumento esponenziale della domanda sta travolgendo un settore già in difficoltà per la crisi e il taglio di finanziamenti pubblici. Anche se alcuni segnali cominciano a essere positivi, la maggior parte delle organizzazioni non è uscita dal tunnel. Le associazioni interpellate parlano di scarso sostegno da parte dei donatori, di disimpegno dei board, di insoddisfazione del personale a causa dei bassi salari e delle esigue prospettive di crescita.
Che fare allora? Finora – nota l’Huffington Post – una delle strade più battute dalle non profit americane è stata quella della fusione: due o tre associazioni che non ce la fanno più si uniscono, abbattendo i costi e aumentando la possibilità di aggiudicarsi convenzioni e appalti; unire le forze poi permette di offrire una gamma più ampia di servizi, essere presenti in più regioni, farsi conoscere di più e soprattutto prendere e conservare il meglio di ciascuna organizzazione in termini di dirigenti, donatori, sponsor.
Certo, è una buona soluzione. Ma non basta. “Come mai nel paese non è diffuso un sentimento di urgenza, un desiderio di risolvere la crisi del non profit?”, si chiede l’Huffington. “Non esistono stakeholder nel terzo settore che avrebbero interesse a spingere verso un vero cambiamento? A chi interessa davvero che il non profit abbia a disposizione le risorse per continuare a esistere?”. Domande che non valgono solo per gli Stati Uniti.
di Gabriella Meroni
  • Articolo pubblicato il 13 Luglio 2012

Nel 2010 le separazioni sono state 88.191 e i divorzi 54.160; rispetto all’anno precedente le separazioni hanno registrato un incremento del 2,6% mentre i divorzi un decremento pari a 0,5%. Lo rileva il report dell’Istat diffuso recentemente. I tassi di separazione e di divorzio totale mostrano per entrambi i fenomeni una continua crescita: se nel 1995 per ogni 1.000 matrimoni erano 158 le separazioni e 80 i divorzi, nel 2010 si arriva a 307 separazioni e 182 divorzi.
La durata media del matrimonio al momento dell’iscrizione a ruolo del procedimento risulta pari a 15 anni per le separazioni e a 18 anni per i divorzi. L’età media alla separazione è di circa 45 anni per i mariti e di 42 per le mogli; in caso di divorzio raggiunge, rispettivamente, 47 e 44 anni. Questi valori sono in aumento per effetto della posticipazione delle nozze verso età più mature e per l’aumento delle separazioni con almeno uno sposo ultrasessantenne.
La tipologia di procedimento maggiormente scelta dai coniugi è quella consensuale: nel 2010 si sono concluse in questo modo l’85,5% delle separazioni e il 72,4% dei divorzi. La quota di separazioni giudiziali (14,5%) è più alta nel Mezzogiorno (21,5%) e nel caso in cui entrambi i coniugi abbiano un basso livello di istruzione (20,7%). Il 68,7% delle separazioni e il 58,5% dei divorzi hanno riguardato coppie con figli avuti durante il matrimonio. L’89,8% delle separazioni di coppie con figli ha previsto l’affido condiviso, modalita’ ampiamente prevalente dopo l’introduzione della Legge 54/2006.
Nel 20,6% delle separazioni è previsto un assegno mensile per il coniuge (nel 98% dei casi corrisposto dal marito). Tale quota è più alta nelle Isole (24,9%) e nel Sud (24,1%), mentre nel Nord si assesta sul 17%. Gli importi medi, invece, sono più elevati al Nord (520,4 euro) che nel resto del Paese (447,4 euro). Nel 56,2% delle separazioni la casa è stata assegnata alla moglie, mentre appaiono quasi paritarie le quote di assegnazioni al marito (21,5%) e quelle che prevedono due abitazioni autonome e distinte, ma diverse da quella coniugale (19,8%).
(Dire)

Fonte: dirittiglobali.it

  • Articolo pubblicato il 11 Luglio 2012

Il mercato del lavoro peggiora ancora…
I risultati del mercato del lavoro sono peggiorati durante tutto il 2011. Nel 4° trimestre del 2011, il tasso di occupazione si è attestato al 56,9%, sempre sotto i livelli pre-crisi. Per lo stesso periodo, il tasso di disoccupazione è passato al 9,7%, segnando un aumento dell’1,9% in rapporto all’anno precedente, il che rappresenta il punto più alto dal 2001. Tuttavia il tasso reale di disoccupazione potrebbe risultare superiore, poiché ai quasi 2,1 milioni di disoccupati si aggiungono 250.000 lavoratori in cassa integrazione.
Le categorie più colpite sono quella dei giovani e quella dei disoccupati di lunga durata. La disoccupazione giovanile, salita al 32,6% durante il 4° trimestre del 2011, è più che raddoppiata dall’inizio del 2008. Allo stesso modo, i disoccupati di lunga durata rappresentano il 51,1% del totale dei disoccupati durante il 4° trimestre del 2011. Inoltre, molti lavoratori escono completamente dal mercato del lavoro: nello scorso anno, il tasso dei lavoratori che non cercano più lavoro ha raggiunto il 5% del totale della forza lavoro. Il numero dei NEET (giovani che non studiano, non lavorano e non frequentano corsi di formazione) ha raggiunto il livello allarmante di 1,5 milioni.
Seri problemi esistono anche riguardo alla qualità dei posti di lavoro creati. Dall’inizio della crisi, la proporzione dell’occupazione a tempo determinato e a tempo parziale è aumentata fino a raggiungere rispettivamente il 13,4% e il 15,2% dell’occupazione totale. Inoltre, il 50% del lavoro a tempo parziale e il 68% del lavoro a tempo determinato non è frutto della libera scelta dei lavoratori.

Per ulteriori informazioni clicca qui

Fonte: www.ilo.org

  • Articolo pubblicato il 11 Luglio 2012

Grande apertura nei confronti delle seconde generazioni, della società multiculturale e il riconoscimento della cittadinanza. L’81% è d’accordo con i ricongiungimenti familiari. Ma solo una minoranza darebbe il voto agli immigrati residenti
Gli italiani mostrano grande apertura verso la società multiculturale, le seconde generazioni e il riconoscimento della cittadinanza. Il 72% degli intervistati dall’Istat per la rilevazione “I migranti visti dagli italiani” è favorevole all’acquisizione della cittadinanza italiana per i figli di stranieri nati nel Paese. La quasi totalità delle risposte è che sia giusto dare la cittadinanza agli immigrati che ne fanno richiesta dopo un certo numero di anni di residenza regolare in Italia. Sono sufficienti 5 anni per il 38% dei rispondenti, 10 per il 42%, 15 anni per il 10% degli intervistati. Un residuale 8 % ritiene che non debba essere mai concessa la cittadinanza.
Ma si ferma al 42,6% la quota di quanti si dichiarano molto o abbastanza d’accordo a riconoscere il diritto di voto nelle elezioni comunali agli immigrati che risiedono da alcuni anni in Italia, anche se non hanno la cittadinanza italiana. La maggioranza (57%), invece, è poco (18%) o per niente d’accordo (39%). Riguardo agli immigrati irregolari che non hanno commesso reati, il 54% degli intervistati risponde che non devono essere espulsi, “seppure un numero comunque elevato (46%) ritiene che, invece, ciò debba avvenire”.
Dalle risposte fornite emerge il riconoscimento di un ruolo positivo della società multiculturale. Oltre il 60%, infatti, ritiene che “la presenza degli immigrati sia positiva perché permette il confronto con altre culture”. L’affermazione per cui “ogni persona dovrebbe avere il diritto di vivere in qualsiasi paese del mondo abbia scelto” trova d’accordo (molto 54%, abbastanza 33%) la quasi totalità dei rispondenti. L’apertura verso il multiculturalismo, emerge in particolare da alcune risposte.  La maggior parte degli intervistati (82%), infatti, si dichiara poco (24%) o per niente d’accordo (58%) con l’affermazione che “è meglio che italiani e immigrati stiano ognuno per conto proprio”, manifestando chiaramente di apprezzare la convivenza tra culture diverse. Una quota simile (81%) si dichiara poco (27%) o per niente d’accordo (54%) con chi ritiene che “l’Italia è degli italiani e non c’è posto per gli immigrati”.

Fonte: dirittiglobali.it

  • Articolo pubblicato il 9 Luglio 2012

In tre mesi cala dell’1 per cento. Risparmio fermo, reddito fatica.
Le famiglie si scoprono sempre più povere, il loro potere d’acquisto scende ancora cadendo al livello più basso da 12 anni. Infatti mentre i redditi diminuiscono, o crescono poco, l’inflazione tiene la testa alta mangiandosi buona parte della capacità di spesa. Ecco che per tenersi a galla gli italiani mettono a freno i consumi e mantengono sostanzialmente fermo il risparmio. È questa la fotografia dell’Istat sui bilanci delle famiglie nei primi tre mesi del 2012.

A preoccupare di più è il potere d’acquisto, ovvero il reddito reale, che già a inizio anno, dopo un 2011 negativo, cala dell’1% sul trimestre precedente e del 2% rispetto a un anno prima. Ribassi netti che portano anche a un’ulteriore erosione della capacità d’acquisto espressa in euro, scivolata a 230,8 miliardi. Tanto che per trovare un livello inferiore bisogna tornare indietro al terzo trimestre del 2000. D’altra parte il reddito disponibile in valori correnti, al lordo dell’inflazione, è addirittura diminuito a confronto con ottobre-dicembre. E anche se le entrate delle famiglie restano positive rispetto allo scorso anno (+0,9%) la loro crescita rimane lontana dalla corsa dei prezzi (+3,3% circa).

Gli italiani quindi stringono i cordoni della borsa: a inizio 2012 la spesa per consumi diminuisce a confronto con la fine dell’anno scorso e la propensione al risparmio resta ferma al 9,2%. Vista la situazione le famiglie italiane, tradizionalmente ritenute “formiche”, più di fermare l’emorragia degli accantonamenti non potevano fare. Anzi, rispetto ai minimi del 2011 l’Istat registra anche una lieve ripresa (+0,4 punti). Invece vanno sempre scendendo gli investimenti delle famiglie, ovvero gli acquisti di abitazioni (-4,6% su base annua).

L’apertura del 2012 è negativa anche per le imprese, la quota di profitto registrata per le società non finanziarie nei primi tre mesi (38,8%) tocca il livello più basso dall’inizio delle serie storiche, cioè dal 1999.

Il quadro fatto dall’Istat mette in allarme le associazioni dei consumatori: Federconsumatori e Adusbef stimano per il periodo che va dal 2008 ad oggi una perdita del potere d’acquisto dell’11,8% e il Codacons fa notare come l’ultimo ribasso sia di quattro volte superiore al calo segnato lo scorso anno.

Fonte: www.la stampa.it

  • Articolo pubblicato il 6 Luglio 2012

Quasi 80 mila imprese che danno lavoro a 1 milione 382 mila persone: la cooperazione rappresenta una dimensione sempre più rilevante nel nostro Paese con una presenza “chiave” nei settori centrali della nostra economia. L’Alleanza delle Cooperative Italiane rappresenta il 90% della cooperazione con più di 12 milioni di soci, 1 milione e 300 mila addetti, il mondo delle imprese aderenti all’Alleanza produce un fatturato globale di circa 140 miliardi di euro. E’ quanto emerge dal “Primo rapporto sulla cooperazione in Italia” realizzato dal Censis per l’Alleanza delle Cooperative italiane e diffuso a Roma in occasione del convegno “Le cooperative costruiscono un mondo migliore”.

Le cooperative, si legge nel rapporto, contribuiscono al 7,4% dell’occupazione creata dal sistema delle imprese in Italia. I settori in cui la cooperazione fornisce il suo apporto più rilevante sono il terziario sociale (dove il 23,7% dei lavoratori è occupato in cooperative) e in particolare il settore sanità e assistenza sociale (49,7%), il settore dei trasporti e della logistica (24% di occupati) e i servizi di supporto alle imprese (19,3%). Le cooperative presentano dimensioni molto più consolidate delle imprese tradizionali, considerato che nel 2011, a fronte di una media di 3,5 addetti per impresa, le cooperative ne contavano 17,3.

La cooperazione, si legge ancora, risulta diffusa in tutto il Paese, con una presenza molto più capillare al Sud rispetto al Centro Nord, grazie al rilevante ruolo che questa svolge in ambito agricolo e, in parte, edile: a fronte di una media Italia di 12,3 cooperative ogni 10 mila abitanti, al Sud il dato sale al 16,3, contro il 10,5 del Nord Ovest, il 9,9 del Nord Est e il 9,6 del Centro. Tuttavia guardando all’impatto occupazionale che la cooperazione ha sul territorio, la situazione appare ribaltata con un ruolo più rilevante del Nord Est, dove contribuisce per il 9,4% all’occupazione generata dal sistema imprese (al Sud la percentuale è del 7,6%, al Centro del 6,8% e al Nord Ovest del 6,2%). In Emilia Romagna il valore raggiunge la soglia del 13,4%.

Fonte: www.asca.it