• Articolo pubblicato il 21 Novembre 2014
Caritas e Migrantes: pubblicato il rapporto sulla protezione internazionale

La scorsa settimana è stato presentato a Roma il “Rapporto sulla protezione internazionale” frutto della dalla stretta collaborazione di vari enti: Caritas, Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani), Cittalia, Fondazione Migrantes, Servizio Centrale dello SPRAR e UNHCR. Il primo dato ad emergere è quello del vertiginoso aumento delle domande di asilo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno: nei primi sei mesi del 2014 le richieste presentate sono state infatti circa 25mila, il doppio del totale del 2013. Lo studio fotografa la situazione attuale dei flussi migratori, cogliendo il nesso imprescindibile tra le crescenti migrazioni e le situazioni sempre più diffuse di crisi sociale, istituzionale ed economica dei paesi di partenza.

Gli ultimi anni, dal dicembre 2010 in poi, quindi dalla primavera araba fino all’inasprirsi delle tensioni mediorientali, hanno rappresentato una causa importante dell’esodo di numerosissimi migranti: Iraq, Libano, Afghanistan e Siria sono i paesi sempre più coinvolti nel fenomeno migratorio. Il rapporto osserva inoltre l’incremento degli sbarchi sulle coste italiane: il numero di traversate (giunte a buon fine, quindi le sole conosciute) nei primi sei mesi del 2014, quindi da gennaio a luglio, è di 400: solo nel nostro paese le “carrette” del mare hanno portato 65.456 persone, e nello stesso momento del 2013 i migranti arrivati dal mediterraneo erano appena un decimo, 7.916 persone.

Le provenienze più frequenti dei migranti sono principalmente quella africana e la mediorientale, ma con un focus più preciso il rapporto rivela che tra i mediorientali il 30% è eritreo, a seguire siriano e poi malese. Nel 2013 le percentuali non erano molto diverse: il 26,3% del totale era costituito da migranti siriani, il 23% erano eritrei e il 7% somali. Per trovare una differenza significativa bisogna risalire al 2012, quando la prima nazionalità tra i migranti in arrivo era quella tunisina (il 17% del totale). L’incremento negli ultimi anni degli arrivi siriani è chiaramente da rintracciare nell’inizio della guerra civile anti Assad e poi del sorgere dell’Is.

Il Rapporto sulla protezione internazionale si concentra anche sull’accoglienza dei migranti nell’ultimo anno, tracciando un profilo della disponibilità di posti nelle strutture governative: nei primi sei mesi del 2014 le persone accolte e assistite nei centri sono state 10.331, acui vanno a sommarsi i 28.500 migranti accolti nei Centri di accoglienza straordinaria. Nel primo semestre del 2014 si è inoltre registrato un incremento dei posti disponibili nello SPRAR, il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, che nel triennio 2014-2016 finanzierà 456 progetti per arrivare ad un totale di 13.020 posti di accoglienza a cui vanno aggiunti i 6.490 già attivi. I comuni attualmente coinvolti nel sistema SPRAR sono 375, acui si devono aggiungere 30 province e 10 unioni di comuni. Le regioni più attive nell’accoglienza sono state la Sicilia (che ha accolto il 21,4% del totale dei migranti) e subito dopo il Lazio(ha accolto il 20,8%), e a fronte dei problemi di gestione in cui è incorso il paese nell’ultimo anno il rapporto consegna infine alcune raccomandazioni, tra cui la necessità di revisionare il Regolamento di Dublino ed elaborare un sistema in grado di superare l’annosa dicotomia tra la prima e la seconda accoglienza, con un’attenzione particolare nei riguardi dei numerosi minori che raggiungono il nostro Paese.
Per scaricare il rapporto completo clicca qui

Fonte: dirttisociali.org

  • Articolo pubblicato il 21 Novembre 2014
48° Rapporto CENSIS sulla situazione sociale del Paese nel 2014: presentazione alle ore 10:00 del 05/12/2014 presso Cnel – Viale David Lubin, 2 – Roma
Giunto alla 48ª edizione, il Rapporto Censis prosegue l’analisi e l’interpretazione dei più significativi fenomeni socio-economici del Paese, individuando i reali processi di trasformazione della società italiana. Su tali temi si soffermano le «Considerazioni generali» che introducono il Rapporto. Nella seconda parte, «La società italiana al 2014», vengono affrontati i temi di maggiore interesse emersi nel corso dell’anno. Nella terza e quarta parte si presentano le analisi per settori: la formazione, il lavoro, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti e i processi economici, i media e la comunicazione, il governo pubblico, la sicurezza e la cittadinanza.

Intervengono:
Massimiliano Valerii
Giuseppe De Rita

 

Fonte: censis.it

  • Articolo pubblicato il 18 Novembre 2014
Dopo giorni di scontri e mentre vengono trasferiti gli ospiti del centro per rifugiati nel cuore del quartiere Tor Sapienza per la prima volta parlano i migranti. Ecco la loro lettera aperta

Schermata 2014 11 14 alle 12.57.56Mentre in queste ore il centro di accoglienza per richiedenti asilo di Tor Sapienza a Roma si comincia a svuotare per la prima volta parlano i rifugiati. Dopo un’altra giornata di proteste nel quartiere alla periferia est della capitale infatti le istituzioni hanno cominciato il trasferimento degli ospiti dell’associazione, a partire dai 45 minori presenti. È in questo contesto che ci arriva questa lettera che pubblichiamo.

Tutti parlano di noi in questi giorni, siamo sotto i riflettori: televisioni, telegiornali, stampa. Ma nessuno veramente ci conosce.

Noi siamo un gruppo di rifugiati, 35 persone provenienti da diversi Paesi: Pakistan, Mali, Etiopia, Eritrea, Afghanistan, Mauritania, ecc…

Non siamo tutti uguali, ognuno ha la sua storia; ci sono padri di famiglia, giovani ragazzi, laureati, artigiani, insegnanti, ecc.. ma tutti noi siamo arrivati in Italia per salvare le nostre vite. Abbiamo conosciuto la guerra, la prigione, il conflitto in Libia, i talebani in Afghanistan e in Pakistan. Abbiamo viaggiato, tanto, con ogni mezzo di fortuna, a volte con le nostre stesse gambe; abbiamo lasciato le nostre famiglie, i nostri figli, le nostre mogli, i nostri genitori, i nostri amici, il lavoro, la casa, tutto. Non siamo venuti per fare male a nessuno.

In questi giorni abbiamo sentito dire molte cose su di noi: che rubiamo, che stupriamo le donne, che siamo incivili, che alimentiamo il degrado del quartiere dove viviamo. Queste parole ci fanno male, non siamo venuti in Italia per creare problemi, né tantomeno per scontrarci con gli italiani. A questi ultimi siamo veramente grati, tutti noi ricordiamo e mai ci scorderemo quando siamo stati soccorsi in mare dalle autorità italiane, quando abbiamo rischiato la nostra stessa vita in cerca di un posto sicuro e libero. Siamo qui per costruire una nuova vita, insieme agli italiani, immaginare con loro quali sono le possibilità per affrontare i problemi della città uniti insieme e non divisi.

È da tre giorni che viviamo nel panico, bersagliati e sotto attacco: abbiamo ricevuto insulti, minacce, bombe carta. Siamo tornati da scuola e ci siamo sentiti dire “negri di merda”; non capiamo onestamente cosa abbiamo fatto per meritarci tutto ciò. Anche noi viviamo i problemi del quartiere, esattamente come gli italiani; ma ora non possiamo dormire, non viviamo più in pace, abbiamo paura per la nostra vita. Non possiamo tornare nei nostri Paesi, dove rischiamo la vita, e così non siamo messi in grado nemmeno di pensare al nostro futuro.

Vogliamo dire no alla strada senza uscita a cui porta il razzismo, vogliamo parlare con la gente, confrontarci. Sappiamo bene, perché lo abbiamo vissuto sulla nostra stessa pelle nei nostri Paesi, che la violenza genera solo altra violenza. Vogliamo anche sapere chi è che ha la responsabilità di difenderci? Il Comune di Roma,  le autorità italiane, cosa stanno facendo? Speriamo che la polizia arresti e identifichi chi ci tira le bombe. Se qualcuno di noi dovesse morire, chi sarebbe il responsabile?

Non vogliamo continuare con la divisione tra italiani e stranieri. Pensiamo che gli atti violenti di questi giorni siano un attacco non a noi, ma alla comunità intera. Se il centro dove viviamo dovesse chiudere, non sarebbe un danno solo per noi, ma per l’intero senso di civiltà dell’Italia, per i diritti di tutti di poter vivere in sicurezza ed in libertà. Il quartiere è di tutti e vogliamo vivere realmente in pace con gli abitanti. Per questo motivo non vorremmo andarcene e restare tutti uniti perché da quando viviamo qui ci sentiamo come una grande famiglia che nessuno di noi vuole più perdere, dopo aver perso già tutto quello che avevamo.

Fonte: vita.it

  • Articolo pubblicato il 13 Novembre 2014

Pari opportunità, Unar e Consiglio nazionale forense lanciano il Fondo per la tutela giurisdizionale delle vittime. A disposizione 600 euro pro capite per grado di giudizio, da restituire in caso di vincita della causa. “Favorirà emersione delle discriminazioni”. Il progetto durerà due anni e ha come destinatari le vittime di discriminazione per motivi di razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, età, disabilità, orientamento sessuale e identità di genere

Agevolare l’accesso alla giustizia alle vittime di discriminazione e favorire l’emersione del fenomeno della discriminazione. È questo l’obiettivo del Fondo di solidarietà per la tutela giurisdizionale delle vittime di discriminazione che il dipartimento per le Pari opportunità e l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali hanno presntato a Roma durante l’inaugurazione del Villaggio antidiscriminazione presso gli spazi della Città dell’Altraeconomia, nell’ex Mattatoio di Testaccio a Roma. Il fondo avrà una dotazione finanziaria di 200 mila euro (di cui 18 mila serviranno per sostenere i costi di gestione) e sarà gestito dal Consiglio nazionale forense (Cnf) che ha sottoscritto l’accordo con le Pari opportunità e l’Unar.

Il progetto durerà due anni e ha come destinatari le vittime di discriminazione per motivi di razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, età, disabilità, orientamento sessuale e identità di genere, vittime che non usufruiscono dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Al fondo potranno accedere anche associazioni di settore legittimate a stare in giudizio, organizzazioni sindacali, associazioni e organizzazioni rappresentative del diritto e dell’interesse leso.
“Assistiamo purtroppo ad una escalation della discriminazione in Italia acuita anche dalla particolare fase di congiuntura – ha affermato Marco De Giorgi, direttore generale Unar -, cosi come dimostrano le 1.142 denunce di casi di discriminazioni e violenze, di cui sono vittime tantissimi immigrati, rom, disabili e persone Lgbt, ricevute dall’Unar solo nel 2013”, tuttavia, a fronte dell’elevato numero di denunce, le azioni di antidiscriminazione attivate sul piano giudiziario sono ancora esigue, spiega l’Unar. Un fenomeno da “ascrivere alle numerose difficoltà di accesso al sistema di giustizia spesso lamentate da parte delle vittime – spiega l’Unar – tutti soggetti vulnerabili dotati di scarse conoscenze sul piano giuridico”.

Alle vittime verrà erogata una somma di 600 euro che, secondo quanto stabilisce il progetto, “ha natura di anticipazione delle spese di assistenza legale necessarie per instaurare i giudizi antidiscriminatori stessi”. L’aiuto economico, però, non è un prestito. La restituzione della somma avviene “in caso di esito vittorioso della causa, con soccombenza della controparte alle spese, entro un anno dalla pubblicazione del provvedimento che definisce il giudizio”. A restituire la somma, l’avvocato della parte lesa indicato al momento della domanda che dovrà presentare regolare fattura.

“Con il Fondo, che opera attraverso un meccanismo rotativo di anticipazione e di restituzione delle somme – spiega l’Unar -, si intende fornire un supporto alle vittime per facilitarne l’accesso alla tutela giurisdizionale, qualora non ricorrano i presupposti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato”. Ciascun beneficiario, inoltre, può presentare un massimo di tre domande nell’arco temporale di un anno, ed èpossibile presentare una istanza di anticipazione al Fondo per ogni grado di giudizio. La domanda va presentata al gestore del fondo, cioè il Consiglio nazionale forense, direttamente, tramite posta raccomandata o Pec.

Il fondo sarà operativo da subito. Il testo dell’accordo di collaborazione tra Cnf, dipartimento Pari opportunità e Unar, infatti è stato già registrato dagli organi di controllo della presidenza del Consiglio dei ministri il 21 febbraio 2014. Sui siti web dell’Unar e del Consiglio nazionale forense, presto verranno pubblicate anche tutte le indicazioni e le modalità per accedere al fondo. Sui diversi procedimenti, inoltre, verranno raccolti anche i dati che il Cnf comunicherà all’Unar con cadenza trimestrale. I risultati del progetto, verranno presentati in un evento dedicato che si terrà nella primavera del 2016. “L’attivazione del fondo – si legge nel testo del progetto – consentirà di incardinare il giudizio antidiscriminatorio prescindendo dai costi di giustizia, con la positiva ricaduta di una maggiore emersione del fenomeno”.

Fonte: nelpaese.it

  • Articolo pubblicato il 13 Novembre 2014
I Belong: la campagna dell’Unhcr per la cancellazione dell’apolidiaNel 1961 l’Onu ha ratificato la Convenzione sulla riduzione dell’apolidia. Oggi, a più di cinquant’anni dal riconoscimento della condizione di apolide e dall’emanazione del documento che prevedeva un percorso internazionale per la protezione ed il riconoscimento giuridico di questa fragilissima categoria di persone, la situazione rimane controversa e di grande entità.
“Apolide – ha denunciato Helena Behr dell’Unhcr durante un incontro promosso dalla Commissione Diritti Umani di Palazzo Madama – è una persona che non esiste giuridicamente, è invisibile. Non ha accesso a diritti come cure mediche e istruzione, non può sposarsi, avere un conto in banca o la patente. Nel mondo ci sono almeno 10 milioni di apolidi, di cui 3-5 milioni di bambini. In Europa ce ne sono 600 mila”. Le categorie più colpite sono le minoranze etniche, e più di un terzo sono bambini. In Italia sono stati riconosciuti solo 900 apolidi, quando in realtà la cifra si attesta intorno alle 15mila persone (una stima della Comunità di Sant’Egidio), che nel nostro Paese sono principalmente Rom arrivati dall’ex Jugoslavia prima che si disgregasse o i loro discendenti. Gli altri provengono dall’ex Urss, dalla Palestina, dal Tibet, dall’Etiopia e dall’Eritrea.
Annualmente, ha spiegato il Prefetto Angelo Di Caprio, “sono circa 230mila i procedimenti amministrativi per la richiesta di cittadinanza italiana, 30-40 le domande per lo status di apolide, mentre i procedimenti pendenti 358”. Cir e Unhcr hanno ricordato che in Italia esistono due procedure per il riconoscimento dell’apolidia: amministrativa, ma “accessibile solo a chi è già in possesso di un regolare titolo di soggiorno”, o giudiziaria, difficilmente accessibile.
Al fine di agevolare il riconoscimento dell’apolidia, e la sua graduale cancellazione, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati istituisce la campagna “I belong”, che ha l’obiettivo di porre fine all’apolidia nei prossimi dieci anni. “È un problema – spiega l’Unhcr – creato unicamente dall’uomo, facilmente risolvibile se ci fosse la volontà dei Governi”.  I dieci milioni di apolidi presenti al mondo vivono infatti una condizione di discriminazione senza pari: viene loro negata la cittadinanza, e di conseguenza essi non hanno diritto ad un certificato di nascita, e nemmeno quello di morte. Senza parlare della loro totale esclusione dai diritti fondamentali, garantiti proprio da quelle istituzioni che negano l’esistenza degli apolidi: dal diritto all’istruzione a quello sanitario, queste persone vengono relegate ai margini della società. L’Italia ha sì aderito alla Convenzione del 1954, che definiva lo status di apolide, ma non a quella del 1961 sulla riduzione e la prevenzione dell’apolidia, con un’attenzione specifica ai minori. Fra l’altro il riconoscimento dello status è vincolato da difficoltà burocratiche e procedurali tali che pochissimi riescono ad ottenerlo. Questo spiega anche la discrepanza fra i 900 apolidi riconosciuti e i 15mila de facto presenti in Italia. Spiega Helena Behr dell’Unhcr: “L’Italia è uno dei soli 12 Stati al mondo che prevede lo status di apolide; le procedure sono addirittura due, ma entrambe problematiche: l’amministrativa è vincolata al permesso di soggiorno, mentre quella giudiziaria può durare diversi anni. Per entrambe vengono spesso richiesti certificati dei paesi d’origine difficile da reperire”. Al nostro Paese viene chiesto di ratificare la Convenzione del 1961, e quindi di procedere verso la semplificazione dell’iter burocratico che porta al riconoscimento dello status di rifugiato, per tutelare gli apolidi che, essendo privi di documenti, corrono rischi come l’espulsione e la detenzione ingiustificate, e allo stesso tempo non vedono riconosciuti una serie di diritti fondamentali.

Per aderire alla campagna dell’Unhcr clicca qui. 

Fonte: dirittiglobali.org

  • Articolo pubblicato il 13 Novembre 2014
Un’indagine sugli orientamenti al volontariato degli studenti di Scuola Secondaria di Secondo Grado in Emilia-Romagna aprirà alla richiesta di una sperimentazione nazionale. «I giovani vogliono fare e questo impegno ha un impatto enorme sia sul loro rendimento che sulla formazione. Bisogna sfruttare questa enorme ricchezza», spiega Andrea Bassi, professore associato di Sociologia Generale dell’Università di Bologna, che ha condotto lo studio

spazio giovani 1 2008 okCome nasce questa indagine?
Siamo partiti dall’idea di rendicontare le principali attività di lavoro volontario degli studenti delle superiori in Emilia. Per farlo abbiamo pensato ad un questionario. A quel punto però abbiamo deciso di renderlo più interessante aggiungendo, oltre alle domande sull’impegno degli studenti, anche la proposta di un volontariato scolastico per vedere le reazioni

Come avete strutturato i questionari?
L’indagine ha preso in esame  1200 studenti di scuola secondaria. È un campione che non è rappresentativo al 100% in termini statistici ma è ragionato e mira a riassumere tutto il panorama scolastico regionale. Il questionario era suddiviso in 5 blocchi. Di questi i più importanti sono il secondo, che comprendeva sette domande volte a rilevare il concreto svolgimento di attività di volontariato da parte degli studenti intervistati e il terzo, che invece mirava ad indagare le opinioni degli studenti in merito alla proposta di svolgere un “Servizio di Volontariato Scolastico” nel corso della scuola superiore, come parte integrante del curriculum formativo.

Che tipo di feedback ha riscontrato?
In primo luogo la dimensione “quantitativa” di chi si impegna nel volontariato è rilevante: corrispondendo a poco meno di un quarto dei rispondenti (24,1%). Anche l’ammontare di ore settimanali è significativo presentando una media di 4,4 ore e una mediana di 3 ore di impegno continuativo, di rilievo è anche l’ammontare di ore su base annua, i due terzi dei rispondenti infatti dichiara di svolgere fino a 120 ore annue e ben il 16% oltre 200 ore. La dimensione organizzativa in cui si svolge l’attività di volontariato è in prevalenza locale: le voci “gruppo spontaneo” e “associazione locale” infatti rappresentano il 70% dei rispondenti. Per quanto riguarda l’influenza della scuola si registra la seguente situazione: se da un lato ben i due terzi degli studenti dichiara che gli insegnanti hanno trattato dell’argomento volontariato, le risposte scendono a poco più di un quinto per coloro che hanno avuto insegnanti che li hanno coinvolti in attività di volontariato. La quasi totalità degli studenti accoglie positivamente l’idea di una sperimentazione del Servizio di Volontariato Scolastico (93%), così come la stragrande maggioranza si dichiara d’accordo a svolgere tale attività nell’ambito del curriculum scolastico (89,8%) di cui un quarto “molto d’accordo” (27,8%). Gli studenti intervistati però propendono, nella quasi totalità, per lasciare tale esperienza “a scelta” (91,3%) e non a renderla “obbligatoria” (opzione scelta solo dal 8,7%). Così come elevata è la percentuale di coloro che ritengono che a tale servizio/attività debbano essere riconosciuti crediti (78,7%).

Il vostro modello di volontariato scolastico è il Community Service Learning americano, come funziona?
I ragazzi negli Usa, con modalità diverse a seconda degli Stati, devono o possono fare un’attività di servizio alla comunità di 40/60 ore. Queste attività dà crediti formativi e ha un peso curricolare. La cosa interessante è che negli Stati Uniti hanno dimostrato, monitorando il percorso dei ragazzi, che questa attività ha un forte incidenza sui ragazzi. Non solo nell’ambito del rendimento scolastico, ma anche per quello che riguarda l’ambito personale, la partecipazione civica, le relazioni sociali, l’etica e le competenze per il futuro percorso professionale.

Ritiene che anche in Italia l’impatto sarebbe altrettanto positivo?
I dati che l’indagine ci ha fornito ci permettono di stabilire che lo svolgere attività di volontariato incide positivamente sulla performance scolastica (tra gli studenti volontari assidui c’è il 14,3% di bocciati rispetto al 18,5% del campione; e gli il 28,3% di rimandati, rispetto al 35,5% del campione)

In conclusione dunque converrebbe cominciare a sperimentare il Servizio di Volontariato Scolastico?
Lo stesso impegno che si sta mettendo in campo per la costituzione di un Servizio Civile Universale dovrebbe essere messo in campo anche per un SVS. Per questo chiedermelo al Ministero, presentando la ricerca insieme a Luigi Bobba, sottosegretario al Lavoro, che ci sia da parte del Governo la disponibilità alla sperimentazione. Il volontariato continua a ricoprire, da un punto di vista educativo, un ruolo fondamentale. La ricerca dimostra infatti l’interessa e la disponibilità al fare dei ragazzi. Oggi abbiamo l’idea che la scuola sia indietro, soprattutto dal punto di vista tecnologico. La soluzione però non è dare una Lim (Lavagna interattiva multimediale ndr) ad ogni classe. La soluzione è il fare, l’imparare lavorando. La forza del volontariato sta in tre questioni centrali: l’approccio intergenerazionale, il rapporto con problemi reali e il lavoro. Per i ragazzi è fondamentale infatti rapportarsi con adulti che hanno un ruolo forte (come i tutor mesi a disposizione dalle associazioni). Di grande rilevanza per lo studente è anche incontrare problemi veri e situazioni forti come i malati terminali o la disabilità grave. Di fronte a certe cose l’ultimo modello di IPhone non è più così centrale. E infine il fare: mettere in pratica quello che si studia rende lo studio concreto e affascinante.

Fonte: vita.it

  • Articolo pubblicato il 6 Novembre 2014

Nell’ambito del progetto “Ricerca – intervento per lo sviluppo del sistema cittadino dei centri di aggregazione per adolescenti” il 4 novembre alle 9.30 si è svolto un incontro presso il Dipartimento Servizi Educativi e Scolastici, Giovani e Pari Opportunità in via Capitan Bavastro 94. È stata alta la partecipazione sia di coordinatori e operatori dei centri (24 persone in rappresentanza di 19 CAG) sia dei referenti degli enti promotori (13 persone in rappresentanza di 8 municipi).

Durante l’incontro è stato illustrato lo stato di avanzamento del progetto ed è stata condivisa la programmazione delle prossime attività.

In particolare, tra gli argomenti trattati: l’ultimo modulo formativo in programma che si svolgerà presso la sede LUMSA il prossimo 28 e 29 novembre; la proposta di voucher formativi per visite e scambi autogestiti con altri centri; le visite e gli scambi formativi riservati ai referenti dei Municipi e del Dipartimento; l’ipotesi di costituzione di un Gruppo di co-progettazione per l’accesso in partenariato ai fondi europei e/o di uno Sportello di assistenza tecnica per la progettazione; il convegno finale del progetto; la proposta di organizzare un evento cittadino di tutti i CAG nel quale testimoniare alla società civile il grande lavoro dei centri sul territorio; l’ipotesi di costituire un Tavolo permanente di coordinamento dei Centri che possa rappresentare questa realtà in diversi contesti.

Fonte: retecag.oasisociale.it

  • Articolo pubblicato il 6 Novembre 2014

dispersione_minoriIl nostro paese è di nuovo fanalino di coda in tema di dispersione scolastica, nonostante gli sforzi di realtà come il terzo settore, che ogni anno, da solo, investe circa 60 milioni di euro per contrastare il fenomeno.
I dati – allarmanti -sono stati lo stimolo per la realizzazione dell’indagine “LOST-Dispersione scolastica: il costo per la collettività e il ruolo di scuole e terzo settore” presentata al MIUR nel mese di ottobre dalla Ong We World IntervitaAssociazione Bruno TrentinFondazione Giovanni Agnelli in collaborazione con CSVnet.
A un mese dall’inizio della scuola, anche quest’anno la campanella non ha suonato per tutti. Ogni anno, infatti, decine di migliaia di studenti rischiano di non tornare sui banchi degli istituti scolastici e della formazione professionale; ad abbandonare sono soprattutto i maschi.
Nonostante qualche progresso, l’Italia fatica a recuperare terreno nella marcia verso l’obiettivo di una riduzione dell’abbandono scolastico al 10%, stabilito dall’Unione Europea per il 2020.
Ed è a partire da questi dati allarmanti che nasce “LOST-Dispersione scolastica: il costo per la collettività e il ruolo di scuole e terzo settore”, ricerca nazionale realizzata con particolare riferimento a quattro città (Milano, Roma, Napoli e Palermo) per indagare quanto è grave e quanto costa questo fenomeno al nostro Paese.
L’indagine, che ha ricevuto il prestigioso patrocinio dell’Autorità Garante Nazionale dell’Infanzia e dell’Adolescenza, è stata promossa da WeWorld Intervita, Ong italiana che mette al centro del proprio intervento i bisogni di donne e bambini e che con il network nazionale Frequenza200 lotta dal 2012 contro l’abbandono scolastico, Associazione Bruno Trentin, che sviluppa da anni studi e indagini sul sistema italiano dell’educazione, con una particolare attenzione all’analisi dell’insuccesso formativo, dell’abbandono scolastico e delle transizioni dei giovani dalla formazione al mercato del lavoro, e Fondazione Giovanni Agnelli, che come istituto di ricerca indipendente da anni si è concentrato sui temi dell’istruzione e della formazione.
L’indagine è stata realizzata in collaborazione con CSVnet che, insieme ai CSV delle città interessate (Ciessevi Mialano, Cesv-Spes – CSV del Lazio, CSV Napoli e Cesvop Palermo) ha fornito un contributo fondamentale per il censimento delle associazioni che si occupano di lotta alla dispersione scolastica nei territori dei quattro comuni metropolitani.
“L’indagine è di notevole interesse, non solo perché fornisce una prima quantificazione dell’intervento del terzo settore nel campo della lotta alla dispersione, ma anche perché sottolinea una lesione del principio di uguaglianza – ha dichiarato Gianna Fracassi, Segretaria Confederale della Cgil – La ricerca è, infatti, utile per una prima valutazione dell’apporto del terzo settore in tale campo, segnala però le difficoltà dell’operatore pubblico soprattutto a causa dell’insufficienza delle risorse da dedicare al tema. Si hanno così interventi spesso deboli e troppo differenziati per territori”.
Ma quanto ci costa perdere ogni anno decine di migliaia di ragazzi? Il fenomeno dell’abbandono scolastico ha dimensioni allarmanti anche a livello economico e il suo costo per la collettività è stimato tra l’1,4% e il 6,8% del PIL, quindi da 21 miliardi di euro a 106 miliardi di euro, a seconda della crescita del Paese.
La ricerca per la prima volta ha studiato modalità, caratteristiche e valore economico degli interventi del Terzo settore per contrastare la dispersione. Pur con notevoli differenze da città a città, l’attività principale è l’aiuto nei compiti scolastici (46,5%), seguita a distanza dai centri di aggregazione giovanile (25,6%) e da attività di socializzazione.
Il Terzo Settore – da solo – investe ogni anno 60 milioni di euro per contrastare la dispersione scolastica. Uno sforzo comparabile a quello del Ministero dell’Istruzione, che investe circa 55 milioni di euro ogni anno in progetti attivati nelle scuole, principalmente con finalità di recupero.
Gli interventi promossi dalle stesse scuole sono, a loro volta, per lo più rivolti ad azioni di contrasto al basso rendimento degli studenti e in misura inferiore ad attività ludico laboratoriali o all’orientamento. La ricerca, però, rileva la crescente sfiducia degli insegnanti sulla possibilità di contrastare il problema della dispersione, anche a causa del troppo carico burocratico che limita il tempo da dedicare agli studenti. Scuole e Terzo settore, in ogni caso, raramente sembrano mettere insieme i loro sforzi.
“Per una politica efficace contro la dispersione servono interventi urgenti e mirati, che grazie alla conoscenza dei profili dei soggetti maggiormente a rischio riescano ad anticipare il più possibile le azioni di prevenzione e contrasto – ha dichiarato Andrea Gavosto, direttore Fondazione Agnelli – La ricerca conferma l’importanza di cominciare già nella scuola media: è soprattutto in questo ciclo scolastico, infatti, che si vince la battaglia contro l’abbandono, limitandolo o scongiurandolo nei primi anni delle superiori. Il contributo del Terzo settore è già oggi importante, anche per volume di risorse, ma può diventare decisivo a condizione che si rafforzi la sua capacità di coordinarsi e fare massa critica con gli interventi promossi dal settore pubblico e dalle scuole stesse. Ora questo coordinamento non c’è, a scapito dell’efficacia delle azioni messe in campo.”
La ricerca, infine, mette in luce come l’intervento del privato sociale porti con sé importanti effetti moltiplicatori dell’investimento, legati indissolubilmente alla presenza di lavoro volontario, una straordinaria e indispensabile risorsa. In media, infatti, per ogni euro speso viene prodotto un valore pari a 1 euro e 60 centesimi.
“Scuole e terzo settore rispondono a logiche diverse indipendenti tra loro, ma oggi più che mai abbiamo l’esigenza di lavorare insieme in modo complementare per essere sempre più efficaci nella lotta alla dispersione scolastica – dichiara Marco Chiesara, presidente WeWorld Intervita – Per questo Frequenza200 il nostro progetto di intervento contro la dispersione scolastica ha creato una rete nazionale di condivisione delle buone pratiche e promuovere il dialogo tra istituzioni, famiglie, ragazzi e territorio. Solo così crediamo si possa fare davvero la differenza!
Con questa indagine chiediamo che le scuole si aprano maggiormente al nostro intervento e, al contempo, che Miur ed Enti pubblici in generale favoriscano il processo di collaborazione tra scuole e terzo settore, sostenendo la nascita di reti durevoli nel tempo e capaci di mostrare risultati concreti”.

Fonte: confinionline.it

  • Articolo pubblicato il 6 Novembre 2014

photo by Janne Moren

Parità di genere uguale maggiore competitività dei paesi. Lo sottolinea a lungo il Gender Global Gap, il rapporto del World Economic Forum che oggi fa il punto sulle pari opportunità tra uomini e donne in 142 paesi diversi. Arrivato alla sua nona edizione il rapporto consente di fare comparazioni tra i diversi paesi e individuare traiettorie di miglioramento (o peggioramento). Sono quattro i macrotemi affrontati dal rapporto: vita economica, salute, educazione e partecipazione politica. I quattro settori mostrano forti discrepanze su scala globale. Mentre la partecipazione al mercato del lavoro formale e la distribuzione della ricchezza sono ancora fortemente sproporzionate e i miglioramenti negli ultimi anni sono minimi (un piccolo 4%), l’accesso alla salute ha fatto grandi passi avanti: ben 35 paesi hanno chiuso il gap e lo stesso si può dire per l’educazione dove uomini e donne sono quasi pari (li separa un piccolo 5%). I cambiamenti più rilevanti sono arrivati nella partecipazione alla vita politica, che però rimane anche il settore in cui il divario è più ampio.

Il podio non presenta soprese: Islanda, Finlandia e Norvegia seguite da Svezia e Danimarca, la seconda metà della classifica è interessante: al 6 posto troviamo il Nicaragua, seguito da Rwanda, Filippine, Belgio e Irlanda. E l’Italia? Si classifica 69, una posizione non proprio avanzata ma in via di miglioramento rispetto al 71 dell’anno scorso e all’80 di due anni fa. Cosa ci spinge in basso? Soprattutto l’esclusione delle donne dalla vita politica ed economica. Tra le nostre vicine brillano la Francia che entra nella TOP20 per la prima volta collocandosi al 16 posto e la Germania che mantiene la sua posizione al posto numero 12, la Spagna è ventinovesima, una posizione abbastanza alta, peccato che nel 2007 fosse nella TOP10.

Infine nel rapporto viene data grande importanza alla relazione tra uguaglianza di genere e competitività dei paesi, in tempi di crisi è particolarmente importante ricordarsi e ricordare che non conviene sprecare il talento delle donne tagliandole fuori dalla vita economica e politica.

Qui il rapporto completo e un’interessante mappa navigabile. E qui, un articolo di inGenere a firma diMara Gasbarrone che invita a maneggiare con cura i dati del rapporto.

Fonte: ingenere.it

  • Articolo pubblicato il 3 Novembre 2014
Maria do Carmo Marques Pinto è alla testa del Banco de Inovaçao Social e sta facendo del Portogallo lo stato bandiera dell’economia civile. Ora il governo l’ha scelta come partner per gestire un fondo da 122 milioni di euro.
Schermata 2014 10 29 alle 11.07.50La santa Casa della Misericordia è il più grande e antico istituto di carità del Portogallo. Gestisce la Lotteria Nazionale e con i proventi (più di 250 milioni all’anno) finanzia i servizi sociali e sanitari della città. È un pilastro del welfare state di Lisbona ed è di fatto un istituto parastatale. Il suo presidente, è un ex primo ministro nominato dal governo, tanto per capire l’importanza strategica che la Casa ha nel sistema portoghese.  A prima vista sembrerebbe un’istituzione votata per necessità alla conservazione, tanto delicato è il suo ruolo. Invece quella che è la più grande organizzazione storica del sociale è stata capace di diventare un motore di innovazione creando al proprio interno un corpo estraneo, che ne mette in discussione la tradizione con tutto il suo bagaglio di pratiche consolidate. Il corpo estraneo risponde al nome di BIS, cioè Banco de Inovaçao Social. È stato lanciato il 30 aprile di quest’anno ed è un’alleanza tra 27 delle più importanti organizzazioni sociali e finanziarie del Paese, alle quali si stanno associando via via anche dei Comuni. I partner agiscono secondo un protocollo d’intesa che non prevede alcuna forma ulteriore di burocrazia, nell’ottica di una governance informale.A seconda del progetto mettono a disposizioni risorse e competenze. Inoltre il contributo dei partner è soltanto in parte finanziario. BIS è di fatto una banca che riconosce la pluralità dei valori, proprio come vorrebbe la filosofia dell’innovazione sociale, troppo spesso dimenticata dai suoi stessi promotori. Anzi, forse la risorsa più importante di BIS è il network di professionisti in pensione che prestano il proprio tempo e le proprie competenze su base volontaria. Con una tale posizione strategica l’obiettivo di BIS è di reinventare l’economia del sociale trasformando il modello tradizionale di welfare centralizzato e top-down che rende i cittadini soggetti passivi recettori di servizi, in una nuova partnership tra istituzioni e cittadini che restituisca a questi ultimi il controllo e la responsabilità del proprio destino.

Al cuore di questo processo di innovazione c’è una donna, Maria Do Carmo Pinto presidente del Consiglio operativo della Banca di Innovazione Sociale ed ex direttore del dipartimento per l’Imprenditoria e l’economia sociale della Santa Casa da Misericórdia di Lisbona. Parla correntemente cinque lingue, è simpatica e dinamica e non nasconde certo le ambizioni del progetto lanciato ad aprile. Maria Do Carmo Pinto è stata ospite a Milano all’incontro del Semestre europeo a guida italiana dedicato alla Partecipazione civica (qui)

«Il BIS nasce per cambiare il modello – politico, economico e sociale – ereditato da Bretton Woods», spiega a Vita. «È un modello che è andato in pezzi in seguito alla crisi finanziaria originata dal Sancta Sanctorum del capitalismo speculativo di Wall Street. Il nostro obiettivo è che ci imitino il più possibile». Quando le chiediamo di definire bene il BIS, risponde con chiarezza, pur lasciando i contorni aperti. «È un progetto open source per scambiare conoscenze e idee», spiega. «Non siamo una banca in senso tecnico. Siamo una piattaforma informale senza personalità giuridica, un sistema di governance in cui abbiamo coinvolto tutti i partner che crediamo siano importanti per rivoluzionare il sistema.

Il BIS crea un sistema orizzontale e non verticale. Oggi i problemi sono così complessi che le istituzioni non hanno gli strumenti neanche per comprenderli». «La Casa della Misericordia ha un patrimonio di 1,8 milioni di immobili, dunque una grandissima influenza. Ma l’80% di queste sono vuote», interviene Indy Johar, innovatore istituzionale responsabile del Westmister Hub, e chiamato da Maria Do Carmo a sviluppare il progetto del Banco. «Esistono dunque gli attivi ma non viene dato loro un valore sociale ed in un certo senso questi beni sono come “addormentati”, non c’è un afflusso di capitale. Il BIS è nato per ripensare situazioni come queste: progettare a livello federale assieme al governo il modo migliore per ottimizzare risorse, costi e benefici sociali».

Fonte: vita.it