Italiani e privacy nell’era dei social network: “timorosi eppure distratti”

Foto imbarazzanti, post e frasi compromettenti, confessioni, sfoghi, ma anche numeri della carta di credito, contatti telefonici, indirizzi, dati sensibili: in rete si trova di tutto. E non per una qualche macchinazione ordita dal governo o da improbabili società segrete che ci spiano, ma perché tutte quelle informazioni private e riservate ce le mettiamo noi, a volte con cognizione di causa, molto più spesso con leggerezza, ma soprattutto perché è ormai inevitabile. “Siamo nella cosiddetta ‘era biomediatica’, in cui a regnare è il soggettivismo spinto, ed è centrale la condivisione telematica delle biografie personali, soprattutto attraverso i social network” spiega Giuseppe Roma, direttore generale del Censis, durante la presentazione della ricerca intitolata “Il valore della privacy nell’epoca della personalizzazione dei media”, commissionata dall’ente. Una ricerca in cui si riflette proprio su come sia cambiata la percezione della privacy in Italia con l’avvento del web 2.0, in un mondo digitale che sempre più coincide con quello reale e in cui l’imperativo è la condivisione, pena l’esclusione. A quale prezzo, però, in termini di protezione dell’identità personale?

Il vero problema è che ancora non lo sappiamo con certezza. “I ragazzi in rete scambiano tutto, e il 60% di loro sono convinti che le funzionalità, ad esempio di Facebook, siano sufficienti per gestire la propria privacy e facili da usare – commenta Luca De Biase, giornalista del Sole24Ore – Il dilemma non è più ‘to be or not to be’ ma ‘to share or not to share’, condividere o non condividere. Il risultato però è lo stesso, perchè se non condividi significa che in rete non esisti”. Eppure, secondo la ricerca del Censis, per il 96,2% degli italiani la riservatezza dei dati personali sarebbe un dato inviolabile, tanto che immettere i propri dati online genererebbe una forte apprensione: “Più di otto italiani su dieci sono convinti che su Internet sia meglio non lasciare tracce (l’83,6%), e credono che fornire i propri dati personali sul web sia pericoloso perchè espone al rischio di truffe, mentre l’83,3% teme che molti siti estorcano questi dati senza che gli utenti se ne accorgano. Secondo il 76,8% anche usare la carta di credito per effettuare acquisti online è rischioso” afferma Giuseppe Roma, sempre illustrando i risultati della ricerca.

E qui arriva l’altra contraddizione. Perché, sebbene la percezione del rischio sia così elevata, soltanto una minoranza di utenti di Internet sembra in grado di adottare una qualche forma di “gestione attiva” della privacy: “Solo il 40,8% di chi naviga in rete usa almeno una delle misure di salvaguardia della propria identità digitale, come la limitazione dei cookie, la personalizzazione delle impostazioni di visibilità dei social network, la navigazione anonima. Il 36,7% non ricorre a nessuno strumento, mentre il 22,5% si limita a forme passive di autotutela, che a volte implicano la rinuncia a ottenere un servizio via web”. Pensiamo all’iscrizione a un determinato sito o all’installazione di una app: quanti di noi si leggono tutto quel papiro su consensi e permessi? E anche se fosse, quanti comprendono veramente il senso di tutti i vari punti legali? A regnare è insomma la fiducia, unita a una forte dose di rassegnazione (dal 61% al 74% degli internauti ritiene di avere uno scarso o nessun controllo sui propri dati personali) e tanta “distrazione”, soprattutto nella condivisione di status privati nei social network.

Sempre secondo i dati del Censis, infatti, l’88,4% degli naviganti è consapevole che i grandi operatori del web, come Google e Facebook, possiedono gigantesche banche sugli utenti. I dati personali hanno infatti un valore economico rilevante, si sa che possono essere usati sia a fini commerciali (si pensi alle pubblicità mirate che ormai abbiamo imparato a conoscere e riconoscere) sia politici (Obama ci ha basato la campagna elettorale), e non è da sottovalutare la questione della sorveglianza, come il caso Snowden insegna. “Il fatto è che oggi, se voglio esserci in rete, è difficile non avere conseguenze in termini di privacy – rimarca ancora Roma. Subentra perciò una negoziazione, un arbitraggio su quello che ‘io’ decido di rendere pubblico”. A questo proposito, il giornalista De Biase cita il concetto di “privacy sommersa”: “In realtà – spiega – io costruisco un personaggio in rete coerente con quello che voglio che sia l’immagine di me in pubblico. Proprio in questo modo proteggo la mia privacy, che rimane fuori dalla rete”.

Eppure, se è vero che c’è chi sta molto attento ed effettua un’accurata selezione delle informazioni che vuole dare di sé, soprattutto tra i più giovani si tende a fare confusione e a usare la rete con leggerezza. Per non parlare degli “errori di gioventù”, che sul web possono diventare indelebili. Per questo, secondo la ricerca del Censis, particolare favore riscuote l’ipotesi di introdurre nell’ordinamento giuridico il “diritto all’oblio”, con oltre il 70% degli italiani convinto che le informazioni personali sul nostro passato potenzialmente negative o imbarazzanti dovrebbero poter essere cancellate dalla rete quando non sono più funzionali al diritto di cronaca. Di recente, in California è stata introdotta una nuova legge che, a partire dal 2015, darà la facoltà ai minori di poter cancellare il proprio passato digitale se compromettente per il proprio futuro scolastico o lavorativo (in Usa, ad esempio, è ormai prassi il controllo del profilo Facebook da parte delle aziende di coloro che si apprestano ad assumere). A prescindere dalle falle che una legge del genere può presentare – e se il contenuto ormai è già rimbalzato per la rete? E gli adulti? – si capisce come ormai il tema sia divenuto centrale per la nostra società a livello globale.

Se il presidente dell’autorità Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, e il presidente del Censis Giuseppe De Rita parlano di dominio dei contenuti e dei “gruppi” come peculiarità del web 2.0, entrambi sono convinti che i soli strumenti giuridici siano inadeguati, nonostante il 54% degli italiani sia favorevole a una legislazione sulla privacy più rigorosa. “Il diritto da solo non basta – spiega Soro – è necessario che evolva anche l’atteggiamento culturale”. Per questo, il punto chiave diventa una maggiore consapevolezza, ovvero non essere schiavi del processo. “Ogni strumento in rete funziona con tecnologie complicate, ma si serve di interfacce che noi chiamiamo metafore, molto più facili da capire – termina De Biase – La metafora di Facebook, ad esempio, è l’amicizia: il sistema è complicatissimo ma tutti sappiamo usarlo perché sappiamo come comportarci con gli amici. Il dopo-Facebook potrebbe essere un’altra metafora che ancora ci manca, ovvero quella per il comportamento civico e dei nostri diritti giuridici”. De Biase si dice sicuro che, negli “scantinati di internet” dove spesso nascono le grandi innovazioni, “se ne sta già parlando”. (Anna Toro)

Fonte: unimondo.org

  • Articolo pubblicato il 28 Ottobre 2013